Torino - Annamaria Franzoni ha ucciso il figlio. Ma non è la gelida e lucida assassina descritta nella precedente sentenza di primo grado. Sedici anni di carcere possono bastare. Sono le nove della sera quando il presidente della corte d’assise d’appello Romano Pettenati legge il dispositivo che chiude l’interminabile processo d’appello. La mamma di Cogne è colpevole, ma la pena viene quasi dimezzata rispetto ai trent’anni inflitti dal gip Eugenio Gramola. Allora, la Franzoni aveva evitato l’ergastolo solo per la scelta del rito abbreviato. Oggi sulla bilancia della giustizia pesano e parecchio le attenuanti generiche dichiarate equivalenti all’aggravante del figlicidio. È il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi a spiegarlo subito dopo nell’aula affollata di giornalisti: «La pena base per l’omicidio volontario è 24 anni, le generiche annullano l’aggravante, a questo punto la riduzione di un terzo prevista dal rito abbreviato fa scendere la pena a sedici anni». Che in realtà diventano tredici con la concessione, automatica, del bonus di tre anni dell’indulto. La Franzoni è stata invece ritenuta sana di mente e non ha usufruito dell’ulteriore sconto che sarebbe scattato con la seminfermità di mente. Non si applica, per ora, nemmeno la revoca della potestà genitoriale.
Lei, l’imputata, non è in aula. E non c’è nemmeno suo marito, i genitori, i suoceri, i fratelli e le sorelle che giorno per giorno l’hanno avvolta col mantello della loro presenza. Basta. Meglio aspettare il verdetto lontano, a casa, fra le montagne dell’Appennino bolognese. La mamma di Samuele ha giocato l’ultima carta al termine della breve udienza mattutina. «Abbiamo finito e adesso ci ritireremo in camera di consiglio – scandisce Pettenati – ma prima l’imputata ha il diritto di parlare. L’ultima parola spetta a lei». Annamaria, jeans e camicia bianca, si aggrappa alle ultime forze e stringendo in mano un fazzolettino, il volto inondato di lacrime, singhiozza poche parole: «Volevo dire, spero che siate giusti nel giudicare. Non ho ucciso mio figlio, non gli ho fatto niente». Poi via, insieme con il marito Stefano che per la prima volta si commuove e piange in aula.
I due giudici togati e i sei popolari si chiudono in conclave. Sono le undici del mattino. Il pubblico, numeroso come al solito, commenta, azzarda previsioni, più che altro non vuole perdere il finale: «Scusi, scusi – chiedono due o tre signore, a che ora è la sentenza?», come se la giustizia fosse un treno svizzero.
L’attesa si allunga come un elastico: cinque, sei, otto ore. Qualcuno comincia a ipotizzare una spaccatura: il partito innocentista, indubbiamente più forte nelle ultime settimane, avrebbe fatto breccia. Naturalmente, non è così. La giuria sta solo pesando gli ingredienti per trovare una soluzione mediana che accontenti tutti, eccetto l’imputata. La Franzoni è colpevole, ma non è la criminale spietata dipinta dal gip Gramola. E lo strumento impugnato per far quadrare i conti è quello delle attenuanti generiche che il codice lascia alla valutazione, assolutamente discrezionale, della corte. Pettenati ha cercato per un anno mezzo una soluzione nella psiche dell’imputata, ma non l’ha trovata. Quel che è uscito dalla porta rientra dalla finestra: le generiche catturano quel che gli psichiatri hanno intravisto ma non afferrato. Alle 21, dopo dieci ore di camera di consiglio, il verdetto è confezionato. «Avverto – dice Pettinati – che è proibito esprimere manifestazioni di consenso o di dissenso». Poi legge la sentenza: sedici anni. Corsi si rasserena: «Credo che le generiche siano state concesse perché è stato colto il disagio della Franzoni quel mattino. Poi, certo c’è l’incensuratezza e c’è anche la giovane età. Sul comportamento processuale, invece, non dico niente».
Certo, fra la richiesta di trasferire il processo altrove e la minaccia di non venire più in aula, fra proclami di sfiducia e no testardi alle perizie psichiatriche, la corte avrebbe avuto più di un motivo per usare la mano pesante. Finisce in un altro modo; corsi che pure si era diviso, chiedendo trent’anni ma evocando la pietas, rassicura tutti: «Non chiederò l’arresto, mancano gli elementi. Attenderemo la pronuncia della Cassazione».
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