Firenze - L’apparato, per sua natura, appare. Anzitutto l’apparire, allora: sala addobbata con ordine e misura, banchetti per 1.550 delegati composti a spiga, stile concorso pubblico, il rosso già sfumato ormai teso inequivocabilmente al giallo. Fortuna vuole che non siano quelle di «Bandiera gialla» le prime note proposte. Al bando «Bandiera rossa» e «Internazionale», si opta per «Over the Rainbow», sperando che l’arcobaleno comprenda un po’ tutti. La scena principale è imponente, «Un partito grande come il futuro», e proprio sulla testa del quartier generale (la presidenza del congresso difesa da veri scherani) sciabolano due parabole. Una in orizzontale, si presume quella dell’oggi. L’altra che si srotola in avanti come in discesa libera. Ai delegati superstiziosi rammenta i dati degli ultimi sondaggi.
È allestita al Mandelaforum di Firenze la sala parto del Partito democratico e, come dirà uno sconsolato Valdo Spini, «questo partito nasce male». Ma dietro l’apparenza dell’apparato, nobilmente impersonata dagli sforzi del segretario Fassino, c’è però la sostanza. Spiega il vecchio delegato milanese, con moto d’orgoglio: «Questo partito è lo stesso di sempre, chiamalo Pci o come diavolo ti pare, ma è un grande fiume che lentamente avanza, perde qualche pezzo, ma scorre e trascina il grosso dell’acqua». Che bello, che nostalgia. Il servizio d’ordine, come ai bei vecchi tempi, malmena i cronisti e, in particolare, quello del Giornale, spintonato e invitato a uscire fuori, affinché gli si possa «spaccare il c...., noi qui lavoriamo, mica facciamo i giornalisti...».
Sì, nasce bene, il «Pd». Non a caso il richiamo più applaudito è quello a Berlinguer e la mozione di Fassino è quella degli affetti. È il grido che si ascoltava in piazza negli anni Settanta, quando il servizio d’ordine picchiava duro i «movimenti» e dal palco l’oratore gracchiava: «Compagni, dobbiamo restare uniti, u-n-i-t-i». Nostalgia che prende alla gola. È fatto di «carne e sangue» Fabio Mussi, il leader della minoranza (15 per cento) che oggi annuncerà il suo «non possumus». Salva l’onore di Piero: «Fassino tocca corde profonde...». Ma dopo una vita di «obbedienza», il compagno Mussi stavolta fa prevalere la «razionalità», perché «evaporano le ragioni del socialismo, e il Pd non è una necessità storica...». Non è convinto Mussi, non si convince Salvi, né la psicologa simpatizzante Cristiana Gasi, cui sembra che «avrebbero tutti bisogno di un po’ di terapia». «Non è cambiato nulla», sospira Gavino Angius (9 per cento). Però il segretario dice di «condividere tutte le proposte della mozione Angius» e farà breccia tra i suoi delegati, che si apprestano a restare nel grande fiume Giallo. «Bisogna comprenderli, in periferia uno resta fuori da tutto, non sarà facile creare un altro partito a sinistra», spiega il delegato comprensivo. Mai andare controcorrente. «Armiamoci e partiamo pure - dice il professore Gianfranco Pasquino (mozione Angius) -, anche se non sono convinto. Stavolta farò il soldatino: se il Pd schiaccerà le minoranze, me ne andrò a casa».
Sì, la sostanza appare quella di sempre, e Fassino gioca con le parole. Il presidente dell’eurogruppo Pse, il tedesco Martin Schultz (quello che Berlusconi paragonò a un kapò), è un tipo tosto. Ripete ciò che si sapeva: va bene la fiducia piena a Fassino, va bene l’interesse per le sperimentazioni italiane, ma «il socialismo europeo è il punto di riferimento naturale di un partito che vuole dirsi riformista, il Pd dovrà entrarvi a pieno titolo...». Poi, per cortesia, regala a Fassino l’arzigogolata formula richiesta sulla possibilità di «apertura» del Pse ai non socialisti. Fassino accorre sul palco per sottolineare la «novità» ai delegati. Parole chiare: «Avete capito? Il compagno ci ha detto una grande novità, si è impegnato a verificare l’adattabilità a livello di gruppo di misure che aprano al contributo di forze riformiste e progressiste più ampie...».
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