A furia di capriole Pisanu si autoaccusa

Per riemergere dal limbo in cui giace, Beppe Pisanu ha avallato il binomio mafia-politica accendendo i riflettori su di sé. Buon ultimo, suggerisce anche (...)
(...) lui che dietro le stragi del ’92 e ’93 ci siano l’Antistato, i framassoni, zia Clara e nonna Fernanda. Lo ha fatto firmando, in veste di presidente dell’Antimafia, trentacinque paginette frutto di un biennio di riflessione di cinquanta tra deputati e senatori. Un profluvio di intelligenza per dire quello che ripetono, ogni volta che gli infili il gettone in bocca, Spatuzza, Ciancimino, Annozero, Micromega, i pm alla Ingroia. E questo, francamente, è troppo. Una commissione parlamentare, se ha un senso, dovrebbe mettere un punto fermo. Se accumula interrogativi e non quaglia, ha solo rubato lo stipendio: 18 milioni di euro. E limito il conteggio all’indennità dei commissari in due anni, sorvolando sulle spese.
Anzi, per dirla tutta, Pisanu fa un passo indietro rispetto a Spatuzza. Lui almeno ci aveva rallegrati informandoci che a ordinare le stragi erano il Cav e Dell’Utri. Beppe invece, più democristianamente, sta sulle generali. Non dà la colpa al Berlusca ma non la esclude. Così siamo alle solite: per Di Pietro & C. è la conferma che il Cav è un brigante, per i berlusconiani che Di Pietro è un fesso, il Cav un santo e Pisanu un loffio. La confusione è tale che a reagire indignato per le conclusioni della commissione è stato Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia. «Le teorie sono belle ma servono le prove», ha esclamato. Che santarellino! Proprio lui che un mese fa ha attribuito le stragi all’accordo tra coppole e un gruppo politico emergente, eufemismo per Forza Italia. Finché lo dice lui, tutto bene. Se poi Pisanu gli fa concorrenza sullo stesso terreno, si inalbera. Ma come fa a impancarsi, signor procuratore? Ce l’ha o no il comune senso del pudore? La verità è che la faccende di mafia servono alla lotta politica, ad andare in tv, a fare carriera. Tutti ci si tuffano, il pollaio diventa stretto e i galli si beccano. Poi ci sono i vecchi arnesi che con l’antimafia cercano di sottrarsi all’oblio.
Questo calza a fagiolo per il settantatreenne Pisanu. Otto volte deputato, due senatore, Beppe ha fatto il giro delle sette chiese: dc di sinistra, cattocomunista, poi centrista, qualche incidente di percorso, berlusconiano della prima ora. Adesso, alza il naso e spia il vento.
Beppe è di Ittiri, venti chilometri da Sassari. Mesto di carattere, sardamente taciturno, nuragico d’aspetto. Adolescenza in parrocchia, gioventù nell’Azione cattolica, si iscrisse ad Agraria a Sassari ed entrò nella Fuci, l’associazione degli universitari casa e chiesa. Con le prime pelurie fu soprannominato Chizzos, cioè Sopracciglione. Stava per laurearsi quando vinse un concorso per il migliore tema sulla nascente Comunità europea. Il concittadino, Ciccio Cossiga - di nove anni maggiore - gli mise gli occhi addosso e gli offrì la segreteria cittadina dei giovani dc. «No. Devo laurearmi», rispose. Ciccio finse di abbozzare ma telefonò di nascosto al vescovo. Il prelato prese Beppe per il bavero e ripeté: «Segreteria cittadina!». «Ma...», fece l’altro. «Senza se e senza ma», gli ingiunse. Beppe tornò da Ciccio e cominciò: «Accetto. Me lo ha comandato...», «Il vescovo, senza se e senza ma», ghignò Cossiga, fiero di averlo incastrato. Pisanu ne divenne il tappetino. La squadra cossighiana, quattro gatti sassaresi, si era data il nome pomposo di Giovani turchi come i seguaci di Kemàl Ataturk. Quelli spazzarono la gerontocrazia ottomana, questi volevano svecchiare la Dc locale. Per anni, mentre già Ciccio era a Roma, Beppe lo sostituì ai funerali, matrimoni e banchetti recitando, appena poteva, i versi del repertorio sardo di cui è patito.
Nel ’72, Chizzos fu eletto deputato. Nella Capitale entrò nel giro moroteo che puntava all’alleanza col Pci. Nel ’76, eletto segretario Benigno Zaccagnini, divenne capo della segreteria di Piazza del Gesù. Zac era brav’uomo piuttosto incapace che lasciava fare ai suoi fedelissimi, detti la Cricca di Shangai con riferimento ai ceffi che circondavano Mao Tse Tung. La crema della cricca era la Banda dei quattro. Beppe fu il numero uno. Gli altri erano il cuneese Bodrato, detto Cipresso, il bergamasco Granelli, detto Crisantemo, il bresciano Salvi che indossava il cilicio. In comune avevano una straordinaria tristezza, il grugno perenne e la convinzione di essere più puri degli altri. Roteavano la roncola, azzoppavano gli avversari, ma con l’aria di servire Dio e la Patria. I napoletani gavianei, che erano trafficoni schietti e scoperti, li chiamavano «chiagni e fotti». Avevano capito tutto. Fu la banda a realizzare il compromesso storico con il Pci dopo l’assassinio di Moro.
Negli anni ’80, Beppe uscì da quel sepolcro ed entrò nei governi Forlani e Spadolini. Con la vicenda P2 e il crac del Banco Ambrosiano la fece grossa. Chizzos, per ragioni di sardità, era amico del Gran Maestro, Armando Corona, che gli fece conoscere il faccendiere sardo Flavio Carboni - lo stesso che ha messo nei guai Denis Verdini nei mesi scorsi - il quale gli presentò Roberto Calvi, presidente dell’Ambrosiano. Costui stava anche tentando di acquistare il Corsera e Beppe sapeva. La rete irretì Pisanu, all’epoca sottosegretario al Tesoro. Rispondendo a un’interrogazione in Aula sostenne che la banca era in eccellenti condizioni. Un mese dopo, Calvi fu trovato impiccato a Londra e l’Ambrosiano, che in realtà era un colabrodo, fallì. Migliaia di risparmiatori, ingannati dalla descrizione fasulla di Beppe, finirono improvvisamente sul lastrico. Tempo dopo, Angelo Rizzoli - ex proprietario del Corsera - dichiarò ai giudici che fu Calvi a indurre Chizzos alla falsa risposta in Aula in cambio di 800 milioni di lire. Della circostanza non si ebbe mai conferma. Ma la pessima figura costrinse Pisanu a dimettersi, la coda tra le gambe.
Dopo Tangentopoli e il salto di una legislatura, ritroviamo Beppe tra le schiere del Cav. Una disinvolta capriola che gli regalò diversi allori: capogruppo di Fi e vari ministeri tra cui gli Interni. È al Viminale che divenne sodale di Gianfranco Fini che dirigeva la Farnesina. Si consultavano di continuo su terrorismo, immigrazione e altre gatte da pelare. L’alleanza dura tuttora all’insegna del moralismo antiberlusconiano. Tra una predica e l’altra, Chizzos ha avuto il tempo di infilare un’ultima perla.

Amico di Luciano Moggi, compagno di scuola della moglie, Beppe, all’epoca ministro, lo supplicò di salvare il Torres Sassari, squadra di C1 e del suo collegio elettorale. Lucianone schioccò le dita e il Torres fu miracolato.
Ora Beppe, in pace con la coscienza, fa le pulci a quelle altrui e dà le pagelle.

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