Il futuro della fotografia? È nelle città come Milano

Si potrebbe dire il futuro della fotografia, ma forse è meglio il futurismo della fotografia. Negli anni Venti del Novecento, poco meno di un secolo dopo che il rivoluzionario procedimento di «dipingere con la luce» di Jacques Mandé Daguerre fu reso pubblico in una riunione dell’Académie des Sciences e dell’Académie des Beaux Arts di Parigi, un genio della modernità che era anche un artista delle parole - Filippo Tommaso Martinetti - scrisse che l’avvenire della fotografia non poteva che essere nelle nuove metropoli come Milano, quelle «città potentemente industriali e quindi ricche di quella grande e geniale estetica degli avvisi mobili notturni (elettricità e neon), estetica inventata a Parigi dall’italiano Jacopozzi \ Fra tutte, la dinamica Milano con le sue sorprendenti prospettive dall’alto del suo Duomo».
Un rapporto ambiguo e «sfuocato», quello tra il futurismo e l’arte della fotografia. Da una parte il Fotodinamismo dei fratelli Arturo, Carlo e Anton Giulio Bragaglia che nel 1910 effettuano delle sperimentazioni fotografiche con soggetti in movimento, ricorrendo principalmente a lunghe esposizioni, collocando i loro sorprendenti risultati (contro l’opposizione del pittore Umberto Boccioni), nel neonato movimento futurista. Dall’altra il Fotofuturismo, fondato da Marinetti e Tato Guglielmo Sansoni nel 1930 e che teorizza l’ipotesi di una fotografia futurista autonoma. Ma mentre sul fotodinamismo sappiamo molto, sul fotofuturismo sappiamo pochissimo e questo poco è proprio Marinetti a rivelarcelo per la prima volta in uno scritto del 1924 dal titolo Milano e l'avvenire della fotografia dove, poeticamente e profeticamente, il padre del Futurismo scrive: «La scienza fotografica diventando sempre più un’arte pura si serve ora di spessori, elasticità, profondità, limpide trasparenze, luci diffuse, caratteri di stampa, forme geometriche, parti del corpo umano spettralizzate, per creare meravigliose opere artistiche, cioè assolutamente inventate e liberate dalla realtà».
L’inedito - la cui autenticità è stata comprovata dalla figlia dello scrittore, Luce Marinetti - proviene dall’archivio privato di Vincenzo Coronati, presidente della Agenzia fotografica digitale italiana. Il testo, dettato da Marinetti proprio a Guglielmo Tato Sansoni, era destinato alla rivista L’illustrazione del medico la quale lo pubblicò nel 1924 in pochissime copie (ormai introvabili), e da allora non è mai stato più riproposto perché era la seconda parte di uno zibaldone che Marinetti aveva in mente di pubblicare e che poi naufragò nel mare dei progetti perduti.

Un testo oggi salvato dal critico Gian Paolo Serino per la sua rivista Satisfiction e che dimostra, in questo 2008 che inizia le grandi celebrazioni del centenario del «Manifesto Futurista», come non esistano avanguardie ma soltanto persone un po’ indietro.

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