Carta d'identità alla mano, centinaia di persone fanno la coda in una scuola del centro del Cairo, non lontano da piazza Tahrir, il luogo simbolo della rivoluzione di gennaio. Ieri, gli egiziani sono andati alle urne per il primo voto libero della storia del Paese. Hanno espresso il loro parere su una serie di emendamenti costituzionali che limitano il mandato del presidente, ampliano le condizioni per le candidature elettorali, arginano l'imposizione di leggi di emergenza.
«Fuori, fuori», hanno gridato in coro uomini e donne quando il governatore del Cairo, Abdel Azim Wazir, in visita al seggio, ha saltato la fila assieme alla sua numerosa scorta. «Sei come tutti noi» ha urlato Alia Shoieb, una signora vestita con i colori della bandiera egiziana. «Credevo che queste cose appartenessero al passato», le ha fatto eco George Ishaq, uno dei leader della rivoluzione, anche lui in attesa di votare. Soltanto qualche mese fa, nell'Egitto del presidente Hosni Mubarak, sarebbe stato impossibile assistere a scene come questa: centinaia di persone in ordinata attesa davanti ai seggi si rivoltano contro i privilegi di un funzionario pubblico.
Altrove, però, l'entusiasmo per il voto libero si è scontrato con un'altra realtà. L'ex premio Nobel per la Pace Mohammed el Baradei è stato infatti protagonista di un violento assalto che ricorda come gli esiti della rivoluzione siano ancora incerti. Un gruppo di islamisti ha lanciato ieri sassi contro l'ex capo dell'Agenzia internazionale per l'Energia atomica mentre si recava al seggio in un quartiere periferico della capitale, impedendogli di votare.
Mentre il mondo intero è concentrato sui tragici eventi in Libia, in Egitto si gioca una partita decisiva per il futuro della regione e i destini delle rivoluzioni arabe. Il referendum di ieri è stato il primo esercizio democratico dopo le rivolte popolari che stanno cambiando la faccia di Nord Africa e Medio Oriente, ma i risultati delle rivoluzioni sono ancora da definire.
In queste settimane gli egiziani sono stati impegnati in un inedito dibattito sul futuro della Costituzione e del Paese. «Finalmente non si parla più soltanto di calcio - dice Ahmad Shahwan, un giovane leader locale dei Fratelli musulmani - Al centro delle conversazioni c'è la vita politica del Paese».
Le forze vive della piazza si sono divise sul referendum. I gruppi giovanili laici e liberali che hanno portato avanti per giorni una capillare campagna per il «no» si oppongono a ogni cambiamento alla Carta fondamentale. Un'inspettata alleanza conservatrice vede invece uniti per il «sì» due antichi rivali: il partito che fu di Mubarak e i Fratelli musulmani, gruppo islamista e storica opposizione al governo centrale.
«No», è scritto su adesivi incollati ai pali della luce nella capitale, su volantini distribuiti agli incroci. «Vogliamo una Costituzione nuova», spiega Ahmed Gohary, uno dei giovani leader della rivolta, vicino a el Baradei.
Il partito Nazional democratico e i Fratelli musulmani invece appoggiano gli emendamenti e sostegono che votare «sì» sia il solo modo per far ripartire il Paese.
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