Il futuro del Paese si gioca nel Nord dove si affrontano curdi e turchi

Assad pensa già a una regione autonoma curda avviando un riforma costituzionale. «Le negoziazioni sono in corso»

La sconfitta dei jihadisti nella Ghouta è andata di pari passo con la resa dell'Arabia Saudita che ha abbandonato progressivamente le fazioni terroristiche - in primis Jaish al Islam - assediate dall'Esercito Arabo Siriano nella periferia di Damasco. Ora il futuro della guerra e della diplomazia in Siria si gioca in quella parte settentrionale definita «Rojava» dai curdi e «Jazira» dal governo di Damasco, una regione complessa in cui convivono turkmeni e arabi in un territorio a maggioranza curda, spartita in zone di influenza tra turchi, americani, russi e iraniani. Tutti gli occhi sono puntati però sul cantone di Afrin dove le fazioni anti-Assad - in realtà ex combattenti dello Stato Islamico e di Jabhat al Nusra riciclati sotto la bandiera dell'Esercito Libero Siriano - sostenute da Erdogan e inquadrate nell'operazione «Ramoscello d'Olivo», conquistano terreno nel silenzio della comunità internazionale. Lungo la strada che da Qamishli porta a Manbij, al confine con la Turchia, gli operai curdi a bordo dei trattori scavano trincee sotto gli occhi delle torrette di controllo del nuovo Sultanato disseminate sul muro di separazione costruito dopo lo scoppio della crisi dei rifugiati. «Questa volta non c'e nessuno scandalo mediatico come avvenne durante la resistenza di Kobane (a cavallo tra il 2014 e il 2015, ndr) perché i governi occidentali ci hanno sacrificati ancora una volta per compiacere il loro alleato Erdogan», lasciano intendere alcuni civili che partecipano alle manifestazioni in solidarietà di Afrin. Pare che l'obiettivo del governo di Ankara sia quello di pacificare la Siria attraverso i colloqui di Astana, preservando allo stesso tempo un conflitto a bassa intensità attraverso i gruppi terroristici che occupano Idlib (e che godrebbero della retrovia turca). Dal canto suo la Russia non si pronuncia e sembra voler temporeggiare nella speranza che le autorità curde trovino un accordo con il governo siriano, con l'obiettivo di convincere i primi a espellere le basi statunitensi dal suo territorio - con l'intermediazione di Mosca - e diventare una regione autonoma integrata nello Stato siriano. Non è un caso che nei corridoi parlamentari a Damasco già si parli di una riforma costituzionale inclusiva nei confronti dei curdi: la Siria potrebbe trasformarsi in una Repubblica tout court cancellando la parola «Araba». «Le negoziazioni sono già in corso», racconta in esclusiva a Il Giornale il sacerdote siriaco ortodosso di al Hassake. Al suo fianco, dentro la chiesa situata in territorio siriano, è seduto il suo migliore amico, Martin Tamrass, originario di Tal Jazira, che è stato rapito per un anno dai miliziani di Daesh insieme ai suoi tre figli, Josephine (22 anni), Tamrass (21) e Sharbel Joseph (16) e suo padre (86 anni). Martin, di confessione cristiana, faceva il falegname e si trovava assieme alla moglie lontano da casa per impegni di lavoro. Il 23 febbraio del 2015 conquistarono il villaggio e con loro si portarono via i suoi famigliari insieme a 97 abitanti di Tal Jazira. Pochi minuti prima aveva ricevuto una telefonata dalla primogenita in cui avvertiva l'arrivo dei pick up neri del Califfato così, dopo aver perso le tracce, si rimise in macchina da solo per consegnarsi ai rapitori. «Non potevo vivere senza di loro», racconta. Rimasero prigionieri in un bunker a Raqqa per un anno e vide la luce del sole in un'unica occasione: indossava una tuta arancione, in mezzo al deserto, con una telecamera di fronte e una uomo incappucciato e armato alle spalle. Chiedeva un riscatto in mondovisione di 6 milioni di dollari per la liberazione di tutti gli ostaggi.

I traumi dell'occupazione sul volto di Martin Tamrass sono scolpiti anche sulle macerie di Deir Ezzor, tornata sotto il controllo dell'Esercito Arabo Siriano e dei suoi alleati, iraniani, afghani, russi, libanesi, che ora vegliano la città fantasma che si affaccia sull'Eufrate, accarezzando i kalashnikov ai checkpoint, in della fine del conflitto bellico.

SCap

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