Gabetti: «Così ho salvato Fiat e migliaia di posti»

nostro inviato a Torino

Quattro ore di risposte, intervallate da un’unica pausa, senza mai scomporsi ma preoccupandosi, di volta in volta, di non dare le spalle alla corte, al pubblico ministero e al banco degli avvocati. Gianluigi Gabetti, 85 anni, attuale numero uno della Sapaz, ha ricostruito ieri davanti al tribunale di Torino il complesso iter che, nel 2005, ha evitato «che la Fiat saltasse» e consentito «di non mettere a rischio migliaia di posti di lavoro», salvando di fatto l’economia torinese.
L’allora presidente della holding Ifil (ora Exor) della famiglia Agnelli si è seduto davanti al presidente della prima sezione del tribunale, Giuseppe Casalbore, alle 9 e 45 per alzarsi solo poco prima delle 14. Dopo aver fatto una dichiarazione spontanea, contenuta in 22 cartelle, ribadendo il pericolo che con «una somma inferiore a 5 miliardi qualcuno, allettato dal basso livello della quotazione del titolo, avrebbe potuto saldamente impadronirsi di tutta la Fiat (e delle sue importanti partecipazioni in Mediobanca e Rcs, ndr)», Gabetti si è soffermato sul nodo attorno al quale ruota il processo: il comunicato al mercato con cui Ifil, da una parte, e accomandita Giovanni Agnelli & C. dall’altra (entrambe presiedute all’epoca dei fatti dallo stesso top manager), annunciavano la volontà degli Agnelli di mantenere il ruolo di azionista di riferimento della Fiat, negando al contempo operazioni finanziarie sul titolo. Una settimana dopo, invece, ecco spuntare l’equity swap, grazie al quale gli effetti della scadenza del prestito convertendo di 3 miliardi erogato da un pool di banche non avrebbe costretto Ifil a diluirsi al 22%, esponendo così il Lingotto agli appetiti di «mani forti», tra cui quelle della defunta Lehman Brothers le cui intenzioni erano di fare uno spezzatino del gruppo per poi rivendere ad altri le varie parti. Ma c’era anche chi, ha dichiarato Gabetti, era pronto a dare una mano agli Agnelli per scongiurare tutto questo. Da qui l’ipotesi, quasi subito tramontata, di costituire una newco alla quale avrebbero aderito Diego della Valle, le Generali, l’emirato di Abu Dhabi e Mediobanca. Dalla deposizione di Gabetti sono emersi particolari inediti sulla vicenda, come il fatto che «se la famiglia Agnelli avesse “tenuto” fino alla scadenza dell’equity swap, avrebbe guadagnato 740 milioni, invece ne ha sborsati 500», per acquistare titoli Fiat e restare così al 30 per cento.
Incalzato dal presidente Casalbore e dal pm Giancarlo Avenati Bassi, l’uomo di fiducia di Gianni Agnelli ha ricordato di aver svolto un ruolo solitario nella vicenda, coadiuvato soltanto dall’avvocato Franzo Grande Stevens e di aver messo «sommariamente a conoscenza John Elkann (che all’epoca non ricopriva cariche nel gruppo Agnelli) di contatti con Merril Lynch», sull’operazione di equity swap.


E la Consob quale atteggiamento tenne? Gabetti ha specificato di aver creduto, forse erroneamente, che il comunicato al centro dell’inchiesta, perché ritenuto fuorviante («non può considerarsi falso», ha ribadito il manager), stesse bene anche all’Authority: «Più lo leggevo, più mi compiacevo di quanta saggezza ci fosse nel documento. Mi recai in Consob, a Roma, come atto di deferenza; vidi il presidente Lamberto Cardia, ma nessuno mi fece osservazioni sul comunicato».

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