Gaffe e proclami, al congresso come al cabaret

Prendiamo Francesco Rutelli, che fu pannelliano, sindaco di Roma, avversario di Silvio Berlusconi nel 2001 e leader della Margherita: insomma «nu bravo guaglione» della politica. Che ti combina «er piacione» nostro? Prima mette assieme i «Free-Dem», nome che evoca un dentifricio più che un laboratorio politico. Poi sostiene che il Pd deve «superare il concetto di leadership solitaria», vuole cioè un partito dove comandano in tanti e dunque si litiga sempre: aspirazione inutile, il Pd è già così. Infine esclama che il Pd con questo congresso è a un punto di svolta nodale: «Bisogna fondare veramente il partito se non vogliamo che ci tocchi di prendere atto che non è riuscito». Testuale. Che è come dire: facciamo una cosa per non dover poi dire che non l’abbiamo fatta. Un campione del sillogismo alla Zelig.
Per il Partito democratico il momento è grave, ma non serio. Ci si avvicina al congresso di ottobre, in meno di due anni hanno già fatto fuori un segretario, ci si aspetterebbe che gli eredi di Antonio Gramsci sfoderino i migliori intellettuali organici su piazza senza confondere Karl con Groucho Marx. Invece siamo al cabaret. Dario Franceschini si ricandida alla guida del partito dopo aver condotto la sinistra italiana al peggior risultato elettorale della storia: D’Alema e Veltroni dopo le sconfitte avevano lasciato, lui raddoppia. E lo fa, vecchio portaborse democristiano, al grido di: «Viva il nuovismo, abbasso i vecchi arnesi». Avendo a fianco le tristi sagome di Piero Fassino, Franco Marini, Pierluigi Castagnetti.
Debora Serracchiani, quarantenne virgulto del vivaio piddì, si lancia entusiasta dalla parte di Franceschini perché è «il più simpatico», originale criterio di scelta politica. La seppelliscono di critiche. Una per tutte, quella di Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma: «Peccato siano morti Totò e Tina Pica, erano molto simpatici e sarebbero stati un ticket straordinario». Lei arriccia il muso sotto i capelli a caschetto e replica di non aver mai parlato di ticket.
Perché stupirsi se l’Unità arruola Paolo Villaggio come editorialista di punta? Fantozzi sarebbe il segretario ideale del partito. Dice Giorgio Merlo, ex Ppi: «La candidatura di Marino introduce elementi che possono mettere in discussione la stessa identità culturale del partito»: forse, se il Pd avesse una identità culturale. Giorgio Tonini, veltroniano ora franceschiniano: «Una parte del partito vuole tornare a coalizioni decise a tavolino che tengono alla larga come la peste gli elettori delle primarie. Mi viene da chiedere: che cosa abbiamo fatto allora per due anni?». Già, che cosa avete fatto oltre a esercitare l’immortale pratica dell’autolesionismo?
Il senatore-chirurgo Ignazio Marino annuncia che si candida alla segreteria perché «serve un partito dal respiro maggioritario»: pronto un trapianto di polmoni? L’onorevole Andrea Sarubbi, ex conduttore di programmi religiosi in Rai, demolisce il collega insistendo sulla metafora sanitaria: Marino sarebbe «un Giuliano Ferrara al contrario: mono-tematico sul sondino». Gli «Eco-dem» stanno valutando che fare «per dare forza, spazio e credibilità all’ambiente come uno dei motori indispensabili per far correre davvero il Pd»: gli ecologisti convertiti dalle bici ai motori, da non credere.
Come nella fiaba di Andersen, il Pd è nudo. Ora che cadono gli argomenti antiberlusconiani e l’arma del gossip (Noemi, veline, escort, foto) si rivela spuntata, adesso che bisogna tirare fuori le idee (e non solo) verso il congresso, si vede davvero cos’è il Partito democratico. Una portineria. Un chiacchiericcio da sottoscala. Un battibecco astioso che svaria da Totò a Tafazzi. Ne prende le distanze perfino Rosa Russo Iervolino: «Da cofondatrice del Pd noto che il dibattito in questo momento dovrebbe avere un livello altissimo» mentre annaspa in «vicende personali o spaccature di corrente».
Ambiente ideale per Massimo D’Alema, cuoco provetto che dà il meglio di sé quando c’è da affettare, triturare, spremere, polverizzare.

Ecco un estratto del suo «one man show» dell’altra sera alla festa del Pd a Roma: «Siamo un partito purtroppo ristrutturato», il gruppo dirigente è «perdente», ha impostato una campagna contro personalità «incommensurabilmente migliori rispetto a quelle che ci sono ora», «noi dell’apparato abbiamo una struttura particolare che ci rende quasi indistruttibili». Il bersaglio non è Berlusconi, ma il suo segretario. Il colpo di grazia sono le primarie, importate dagli Stati Uniti come grande lezione di democrazia, ora invece «una regola assurda».

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