Gainsbourg, per lui era bello essere brutto

nostro inviato a Parigi

Tre anni fa, per gli ottant’anni dalla nascita, era stata la volta di una grande mostra alla Cité de la Musique, audio, video, testi e immagini a raccontare una «vita erotica»: le donne più belle, le canzoni più sexy, le trasgressioni più celebri. Adesso, in anticipo sul 2011, ventennale della scomparsa, un film e più libri tracciano la storia di quella che, con un po’ di retorica, si è deciso di chiamare «una vita eroica»: l’infanzia da ebreo nella Francia occupata, il male di vivere di un artista complesso, complessato e maledetto.
Mai come da quando è morto Serge Gainsbourg è stato così vivo: se vai alla casa di rue de Verneuil dove abitava, sarai di fronte all’unico stabile di tutta Parigi che al bianco dell’arredo pubblico urbano oppone il colore del calore dei suoi fans: i muri esterni dipinti di graffiti, frasi d’amore, messaggi, affiches, ritratti. Se vai al cimitero di Montparnasse dove è sepolto, prima sezione, prima divisione dell’avenue Transversale, intorno alla lapide troverai pacchetti di Gitane, disegni incorniciati, biglietti del métro, foglietti manoscritti attaccati con lo scotch... Nessuna tomba gode di così tante attenzioni: ci trovi liceali e pensionati, un culto che attraversa le età.
Campione d’incassi, proiettato in una dozzina di sale, Gainsbourg. Vie héroïque, di Johann Sfar, non è il solito biopic, la biografia cinematografica che da qualche anno in Francia va per la maggiore: la vita di Edith Piaf, che ad Annie Cotillaud ha valso un Oscar, quella della Sagan, con una straordinaria Sylvie Testud... Non lo è perché il regista è un disegnatore famoso (Gainsbourg hors champ è il libro che raccoglie tutti i disegni e gli acquerelli poi utilizzati nella pellicola) e la sua è un’opera dove l’immagine grafica corre a fianco di quella filmica, con tanto di un doppio Serge, il suo alter ego La Guele, vero e proprio eroe da fumetto. Non lo è perché l’esistenza stessa di Gainsbourg, una via di mezzo fra Jean Cocteau e Andy Warhol, resta ribelle a una rilettura classica per primi piani e campi lunghi e occorreva un’anima da artista per trovare la maniera di illustrare un modo d’essere e di sentire, l’amore per la musica e quello per la parola, un’estetica dei sentimenti come dei comportamenti.
Pittore consapevole di aver quel po’ di talento che ancor più ti fa capire la tua mediocrità, Serge aveva trovato la sua ragion d’essere in quella che considerava un’arte minore, la canzone, e sempre oscillò fra il prenderne atto e il voler andare oltre: rock e dandy, pioniere della World music e maestro della delicatezza in versi, poetico Lautréamont adolescente e cinico Léautaud maldicente. E poi pubblicitario, regista, fotografo, romanziere, sempre in ritardo eppure paradossalmente sempre in anticipo. In una foto degli anni Sessanta in cui quarantasei vedettes celebrano la stagione yé-yé della Francia non c’è cantante, da Johnny Hallyday a Sylvie Vartan, da Sheila a Antoine, da Françoise Hardy a Adamo, da Richard Anthony a Eddie Mitchell, che non abbia vent’anni. Lui ne ha quasi quaranta, ma è il suo Je t’aime... moi non plus che segnerà l’epoca...
Celato da un’immagine sulfurea e un fisico infelice («l’uomo dalla testa di cavolo» si definirà ironicamente, per le orecchie sproporzionate e il lungo naso, «la Bella e la Bestia» ironizzerà pesantemente la stampa al tempo del suo amore con Brigitte Bardot...) Gainsbourg si portò sempre dietro la tentazione aristocratica di chi in pittura amava Matisse e fra i suoi libri di culto aveva Adolphe di Benjamin Constant e À rebours di Huysmans. E non è un caso che la sua casa-museo di rue de Verneuil ricordasse quella di des Esseintes, l’esteta protagonista di quest’ultimo. Un concentrato di bric-à-brac snobissimi dove strumenti chirurgici, vasi preziosi, insegne e distintivi illuminavano pareti dipinte di nero...
Oggi che la sua stella non cessa di brillare e di ingrandirsi, si fa fatica ad accettare quello che Bertrand Dicale illustra chiaramente nel suo Gainsbourg en dix leçons (Pocket, pagg. 246): «La sua carriera fu seminata di insuccessi, impasse, incomprensioni con il pubblico, i media, il “mestiere”. Ci siamo dimenticati che a lungo Gainsbourg non fu un genio. Il suo nome non c’era nelle storie della canzone, nelle classifiche dei più venduti, nei referendum dei più amati. A lungo Gainsbourg fallì la sua carriera».
Un primo infarto a poco più di quarant’anni, quattro pacchetti di Gitane al giorno, il diabete che gli faceva perdere a poco a poco la vista, la cirrosi che lo costringeva a camminare con il bastone, il suo ultimo decennio fu una corsa verso l’autodistruzione al grido di «Gainsbourg non aspetta di morire per essere immortale»... Al concerto che inaugurò quel tratto finale della vita, il primo in cui tornava a cantare dal vivo dopo quindici anni di playback, c’erano ad ascoltarlo Rudolf Nureyev e Roland Barthes, Karl Lagerfeld e Louis Aragon, come se tutti i leader e i simboli delle diverse sensibilità della modernità culturale gli dovessero qualcosa. Ebreo-russo di nascita, fu un purissimo repubblicano francese; amante del nuovo, aveva scritto in versi alessandrini di squisitissima fattura; misogino in arte, aveva avuto due mogli ufficiali, due compagne fedeli, molte amiche; fisicamente sgraziato, era stato amato da donne bellissime.
Morì solo, come in fondo solo aveva vissuto. «La mia ossessione è la incomunicabilità. È difficile per me avere relazioni, non ho bisogno di niente, non posso dare niente. È una deficienza affettiva».

Si ritrovò a essere, senza volerlo, senza rifiutarlo, l’ultimo campione dell’anarchia in una società dei consumi dove, ribelli o integrati, ahimè non cambia niente. Nel cimitero di Montparnasse, un biglietto lo saluta così. «Ci manchi, vedi di riposarti. Il dramma è che non ne valeva la pena».

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