Mi ha parlato. Non ha né una lingua, né un volto. Ma mi ha parlato, dal cristallo della sua teca, nella Sez. VII della mostra fiorentina a Palazzo Strozzi, Galileo. Immagini dell’universo dall’antichità al telescopio. Ammiravo il decoro dei gigli stampigliati a caldo in oro sull'involucro di pelle scura e sui bariletti delle lenti, pensando che quell’oggetto fosse degno di un principe. «Di un Granduca, Cosimo II Medici» precisò il telescopio, 6 centimetri di diametro, un metro scarso di lunghezza «il Costruttore era suo “matematico e filosofo primario”. Quando ottenne da Cosimo la cattedra di primo matematico a Pisa (onorifica, senza obbligo di lezione), e il privilegio di servirlo con studi e scoperte qui, a Firenze, egli si disimpegnò, porgendo come omaggio me, strumento senza uguali al mondo. Io rendo l’occhio di un uomo venti volte più potente. Dal Campanile di San Marco, ho permesso di avvistare una vela al vento molte ore prima che fosse visibile a sguardo nudo. Ma non è questo il mio orgoglio. Io sono un pendolo, nel tempo della scienza».
Il Costruttore era Galileo. Lo sapevo dalle ricche note della mostra. Un teorico senza timore di sporcarsi le mani. Molava le lenti come pochi. Nel laboratorio padovano aveva messo insieme quel tubo ottico con listelli di legno, legati da colla, tessuto nero all’interno, e fasciature esterne di pelle.
La perizia matematica gli garantiva esattezze millimetriche di focale. Ma mi sfuggiva il senso di quella strana metafora, il cannocchiale che si s’immedesimava con il pendolo. «Visitatore - mi prevenne il confidente - hai attraversato i millenni, per arrivare qui, davanti a me. Ti sai fatto incantare dalle belle favole dell’Oriente, nelle prime sale. Hai visto i cieli di Babilonia e dell’Egitto, sulle tavolette di terracotta, sui papiri. Hai letto i calcoli sulle prime macchine del tempo, passive servitrici del Sole e della Luna. Poi hai visto gli affreschi di stelle, le figure di mostri e di eroi che quei teatranti fantasiosi dei Greci hanno messo in scena nello zodiaco, convinti che tra astri e uomo ci sia qualche magica simpatia. Ti sei fatto abbagliare dallo splendore dell’ottone e dell’argento, negli astrolabi islamici, che come polo hanno, invariabilmente, la città santa del Profeta. Forse hai anche scorso le antiche righe, in greco, dell’Almagesto di Claudio Tolomeo. Abbiamo il suo libro, qui. A proposito - mormorò il telescopio - senti questo chiacchiericcio malevolo? Ce l’hanno con me».
Tesi l’orecchio. Dalla sezione VI della mostra - quelle dei globi, delle magnifiche sfere armillari, fondate sull’ipotesi geocentrica tolemaica, pilastro dell’astronomia classica - esalava un brusio di malcontento e di critica.
«Gioielli di oreficeria e di scultura, non c’è che dire - continuò il telescopio - ma io li ho messi tutti fuori gioco. Pezzi d’antiquariato. Via, torniamo al mio essere pendolo. Idealmente, io oscillo verso il passato più profondo. Quando il Costruttore ha accostato la sua pupilla al mio oculare, è tornato ai giorni della Creazione. Ha visto le cose come sono uscite dalle mani di Dio, e come nessun altro, da allora, le aveva mai ponderate. La Luna gibbosa di depressioni e monti, tanto simile alla Terra. Le fasi di Venere. Le macchie sul volto, tutt’altro che perfetto e incorruttibile, del Sole. Propaggini misteriose sul corpo di Saturno. Ha avuto la prova che l’universo è uniforme, coerente, omogeneo. Aristotele fantasticava, parlando di un livello terreno, che cova in cuore il tarlo del mutamento, e di un piano sublime, stellare, dove tutto rimane eterno, identico a sé. Il Principio - Dio, e sia ben chiaro, il Costruttore non l’ha mai messo in dubbio - ha lavorato con la provvidenza della logica. Con il regolo del matematico. Che meraviglia! Ha avvolto tutto nel tempo razionale, nell’oscillazione isòcrona del pendolo. Ma poi io torno a presente, e mi protendo al futuro. Vedì, su quel soffitto della sala, le immagini della Luna riprese dai telescopi Hubble? Milioni di volte più poderosi di me. Ma senza di me, non ci sarebbero. Io sono il primo anello del nuovo cielo. Il punto di non ritorno. Il passo avanti».
«Raccontami di lui, del Costruttore» lo implorai.
«Vuoi sapere le sue notti insonni?». rispose il telescopio. «C’è chi conosce l’argomento meglio di me». Esplorai la teca. Vidi, incastonata nell’ebano e nell’avorio dal bulino dell’incisore olandese Vittorio Crosten, la reliquia. Frantumata e ricomposta, la lente obiettiva del primo cannocchiale galileiano riluceva come una particola al centro di un sacro ostensorio.
«Era ghiacciata e limpida la notte» mi giunse il tintinnio della sua voce «a Padova, quel 7 gennaio del 1610. Il vento agitava la fiammella della candela. Il Costruttore si soffiava sulle dita, per poter scrivere sulla pagina i suoi appunti, tracciare i suoi disegni. Li puoi studiare» aggiunse la lente veneranda «il suo diario è proprio lì, accanto. L’ora terza dopo mezzanotte. Sentivo il tocco delle sue ciglia. Le mani stringevano il cannocchiale. Poi quel sussulto. Lo ricordo ancora. Tre stelle intorno al pianeta Giove. Nessuno le aveva mai avvistate, o solo immaginate. Ma erano proprio stelle? Tranne una, le notti successive furono tutte serene, scintillanti. E il Costruttore comprese. Non erano astri, non potevano danzare così intorno al grande pianeta in moto retrogrado. Erano satelliti. Come la Luna, ancella della Terra. Un altro tassello decisivo che si aggiungeva al gran disegno. Dunque, c’era nel cielo qualcosa che orbitava intorno a qualcosa d’altro. Come si poteva ancora difendere il teorema tolemaico, la Terra unico perno della mole, con tutte le altre sfere in rotazione concentrica? Ingegnosi, quegli epicicli inventati dai saggi ellenisti, per giustificare il moto apparente dei corpi. Li hai notati, nelle sale che hai attraversato?», aggiunse la voce. Annuii.
«Geniali» riprese «ma inutili. Complicazioni di cui la Natura non ha bisogno. La semplicità è divina. Matematica e scienza sono trasparenze di cristallo. La materia di cui sono fatta io. Il resto è immaginazione, poesia».
Galileo Galilei studiò quattro degli oltre sessanta satelliti di Giove. Era un uomo del suo tempo. Li chiamò «Medicei», a dignità del suo datore di lavoro. Ma si impegnò a dare corpo e praticità alla scoperta. Costruì un giovilabio, un calcolatore di metallo che, visualizzando le posizioni apparenti dei corpi orbitanti, programmasse a chi andava per mare un orologio cosmico d’inaudita precisione.
Montò le sue lenti nel 1609. La mostra del quarto centenario si chiude con un dipinto, la Verità nuda. Un uomo le è più vicino di Galileo. È Newton. Perché la scienza avanza. Tranquilla, inesorabile. Come il pendolo del Costruttore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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