Studiano per molti anni, ma quando escono dalle scuole o dalle università si ritrovano spesso a ingrossare le fila dell'esercito del Neet, acronimo per Not in education, employment or training. L'Europa ha deciso di prendere di petto questa emergenza varando il programma Youth Guarantee. Ne parliamo con il dottor Stefano Colli-Lanzi, ceo di Gi Group, realtà italiana e multinazionale che fornisce servizi al mercato del lavoro.
Dottor Colli-Lanzi, com'è nato e quali sono gli aspetti più importanti del programma Garanzia Giovani?
«Il Piano di attuazione italiano della garanzia per i giovani - risponde Colli-Lanzi - è stato redatto dal governo sulla base della Raccomandazione del consiglio dell'Ue: è un'iniziativa che prova a fornire risorse economiche e indicazioni operative per migliorare il funzionamento del nostro mercato del lavoro. In particolare, prevede che i giovani con meno di 25 anni ricevano un'offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, di apprendistato o di tirocinio o altra misura di formazione entro quattro mesi dall'inizio della disoccupazione o dall'uscita dal sistema di istruzione formale».
Impegnarsi nell'implementazione di questa iniziativa significherebbe passare da «politiche passive» a «politiche attive» di sostegno al lavoro?
«Esattamente. E si tratterebbe di un passaggio epocale per l'Italia. Se correttamente implementate le politiche attive sono, infatti, in grado di migliorare, nel breve, l'incontro tra domanda e offerta, riducendo così lo spreco dei rari posti di lavoro disponibili; e, nel medio-lungo periodo, possono costruire condizioni infrastrutturali e professionali durature, capaci di migliorare in modo stabile il funzionamento dell'intero mercato del lavoro. Anche perché, diciamocelo, non possiamo più andare avanti con le sole politiche passive, per almeno tre ragioni: non ci sono più soldi, non risolvono il problema alla radice, creano una cultura opposta a quella che serve oggi».
È meglio perseguire un'implementazione del programma differenziata su base territoriale o adottare provvedimenti e linee guida comuni a livello nazionale?
«Il Piano si limita, per ora, a indicare - lasciando termini di applicazione ancora molto ampi - le principali azioni che si intendono realizzare, consentendo applicazioni differenziate alle diverse Regioni. Per un Paese come il nostro dalle caratteristiche estremamente articolate, è certamente un bene che la Youth Guarantee possa essere in ultima istanza definita ed erogata dalle Regioni, a patto che la loro azione sia improntata alla ricerca della maggiore efficacia ed efficienza possibili. Ma bisogna ricordarsi che l'obiettivo della Youth Guarantee va oltre la pura sperimentazione: per cui è importante che l'autonomia implementativa che la Costituzione riconosce alle regioni vada attuata all'interno di un perimetro condiviso a livello nazionale».
Quali sono i soggetti in grado di offrire un supporto qualificato ed efficace all'attuazione in Italia dell'iniziativa Garanzia Giovani?
«Quelli che ne hanno realmente le competenze e che sanno fare placement dei ragazzi, cioè collocarli nel mercato del lavoro. Ritengo inutile la diatriba pubblico privato che si è sviluppata ultimamente. Ritengo invece opportuno che accoglienza e profiling siano affidati ai centri per l'impiego, coadiuvati da un portale online che permetta una fruizione dei servizi su scala nazionale. Realizzata questa importantissima fase preliminare, diventerebbe possibile dare inizio alla parte più cospicua e delicata del lavoro da svolgere: la presa in carico e lo sviluppo dei percorsi riservati alle persone. E questa fase, ripeto, deve essere portata avanti da chi è in grado di fare placement pubblico o privato che sia».
Per avere successo, come dovrebbe essere implementato il piano Garanzia Giovani?
«Dovrà avere tre caratteristiche fondamentali. La prima: le persone dovranno essere al centro. Ciò significa che i soldi non dovranno essere destinati a infrastrutture oppure a incentivi all'assunzione, ma per sviluppare servizi di supporto alle persone che ne hanno bisogno. La seconda: la premialità: i soggetti erogatori dovranno essere pagati al raggiungimento del risultato. La terza: i soggetti erogatori dovranno essere in grado di prendere in carico le persone e offrire efficaci percorsi di sviluppo.
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