da Pesaro
La gazza ladra, quasi quasi, è un giallo: c'è una servetta con un padre inseguito dalla polizia per ragioni politiche, invano concupita dal Podestà per ragioni carnali, accusata di furto di posate preziose e fatta condannare a morte da un implacabile tribunale da incubo nella vana speranza ch'ella ceda alle sue voglie; ma con quel titolo, via, siamo preavvertiti su chi si è presa di nascosto i pezzi d'argenteria, e dunque Rossini non vuole che la nostra attenzione vada nella suspense. Quasi quasi è anche un'opera buffa: una buona mezz'ora di feste paesane, banchetti, brindisi, tenerezze, amicizie ed amori, solcati appena dal piccolo dubbio su qualche sparizione; ma poi tutto il clima si trasforma, Ninetta la servetta va in galera e gli incontri diventano segreti e lancinanti, la statura del padre cresce, quasi quasi è un'opera tragica. Ma è ancora un'altra cosa.
È quello che han chiamato «semiserio». Alla vigilia dell'opera romantica, l'opera buffa, che conteneva più di quella solenne e seria i veri contrasti drammatici, salvati nella spinta d'un linguaggio vitalissimo dalla promessa d'un lieto fine, si sgretola, lasciando che non solo gli eventi, ma il suo stesso linguaggio venga intriso dalla paura di perdere la certezza che tutto vada a finire bene, e le traversie dei personaggi diventan gravi e insostenibili, e abbiamo bisogno per salvarci d'un colpo di scena. Accade anche con Beethoven in Fidelio, in Bellini nella Sonnambula.
La storia della Gazza ladra non ha tempo e non ha luogo che non siano quelli del teatro puro: tanto è smaccata l'allegria dei momenti lieti, tanto è scoperta la violenza senza freno di un potere non descritto e non spiegato, tanto è assurda e pretestuosa la presenza della gazza che all'ultimo minuto vien scoperta. È dunque una finzione ardua da mettere in scena, se si vuole che tutto incarni ciò che la musica significa. Al Rossini Opera Festival, qui a Pesaro, il giovane regista Damiano Micheletto, da bravo e attento studioso, capisce che tutto ha la gratuità e la forza paralizzante d'un sogno, e ha l'intelligenza di sfidare gli inevitabili contrasti di parti del pubblico lasciando che lo spazio sia un ossessivo gioco astratto, di cilindri che diventano tutto variamente combinati, e che i personaggi vestano costumi stilizzati del nostro teatro d'oggi, festa d'abiti rossi nelle scene liete, orrore di guerra in quelle minacciose, segnate le une e le altre dall'eleganza dell'ironia.
E ha qualcosa di più: il colpo di genio di far sì che il sogno sia d'una ragazza che lo vive nella parte della gazza: e se nell'ouverture si lancia annodandosi in un lenzuolo appeso in cima al palcoscenico, e vola sull'altalena dei sogni di tutti sopra l'orchestra mozzandoci il respiro, per tutta l'opera è presente, non veduta, non capita dai personaggi che si disperano e alla fine la minacciano e costringono al risveglio. È una ragazzina indiana, meravigliosamente inimitabile e leggera, Sandhya Nagaraja.
Vi ho raccontato in qualche modo lo spettacolo e le ragioni della sua grandezza, per la sua novità. Mi piacerebbe avere adesso una pagina a disposizione per spiegarvi la meraviglia della compagnia di canto, e cercare di chiarire perché timbri e colori diversi, senza un modulo ma con uno stile ed un'autenticità, diano forza e varietà allo stile rossiniano. Posso solo presentare un povero elenco, e confessare la soddisfazione di veder crescere, accanto allo stupendo Michele Pertusi, forti personalità giovani che si danno completamente e con tanta autorevolezza alla musica e al teatro: Mariola Cantarero, Kleopatra Papatheologou, Manuela Custer, Dmitry Korchak, Paolo Borgogna, Alex Esposito e tutti gli altri. Lü Jia sembra a volte tagliar l'orchestra Haydn a fette, ma ha diretto ispirato come non mai.
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