Geithner, il Tesoro di Wall Street

Forse passerà alla storia come il ministro del Tesoro che ha guarito l’America dalla crisi finanziaria o forse come l’uomo che ha trascinato nel baratro Barack Obama, il presidente della speranza. Timothy Geithner è giovane, ben introdotto e, soprattutto, sfuggente. A New York non hanno ancora capito perché nel 2003 fu nominato alla testa della Federal Reserve di New York. Di certo, non ne aveva le credenziali, poiché nel suo curriculum poteva vantare qualche mese come sottosegretario al Tesoro alla fine della presidenza Clinton e un paio di anni al Fondo monetario internazionale. E da quando è diventato ministro del Tesoro, la maggior parte degli americani non ne capisce la ragione. Lo scruta, con attenzione, e scuote la testa.
Quel ragazzo di 47 anni non sembra all’altezza. In due mesi non è riuscito a nominare nemmeno uno dei 17 sottosegretari che gli spettano. E ogni volta che parla manda in fibrillazione il cuore degli operatori di Wall Street. Durante le audizioni al Senato per la ratifica della sua nomina, minacciò una guerra commerciale contro la Cina, sfiorando l’incidente diplomatico e qualche settimana fa, illustrando il primo piano di rilancio dell’economia, non riuscì ad andare oltre un elenco di generiche, anzi eteree, buone intenzioni. Il Dow Jones crollò; ieri si è ripreso, alla grande. Ma questo non significa che l’Amministrazione abbia trovato la soluzione magica.
Il rally potrebbe essere un’illusione. Lo pensano commentatori sia di sinistra, come i Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, sia di destra, come l’economista della scuola di Chicago Gary Becker, mentre il guru della crisi Nouriel Roubini continua a vedere nero. Perché Timothy Geithner porta con sé un peccato originale. Non è un riformatore e nemmeno un visionario, ma è la creatura di Robert Rubin. E allora tutto torna.
Trattasi di quel Rubin che negli anni Novanta, in era Clinton, lasciò Goldman Sachs per guidare il ministero del Tesoro promuovendo la liberalizzazione dell’ingegneria finanziaria e l’abolizione del confine tra banca commerciale e banca d’affari. Tornato agli affari, approdò ai vertici di Citigroup. E in campagna elettorale divenne un grande sostenitore di Obama. Intuizione vincente, che gli permise di sussurrare il nome di Geithner all’orecchio del presidente eletto, il quale fu lieto di accogliere il suggerimento.
Tenero Barack, pensava di aver trovato un inappuntabile architetto in grado di disegnare le regole della nuova finanza americana, scopre (o forse lo ha sempre saputo) di aver dato fiducia all’uomo che difende innanzitutto gli interessi della casta finanziaria di Wall Street e che, infatti, quando ha dovuto concedere vagonate di miliardi al colosso assicurativo Aig, si è scordato di inserire una clausola che limitasse i bonus ai manager. Pensava di farla franca e i dirigenti già pregustavano il cortese omaggio da 160 milioni di dollari, ma l’opinione pubblica negli ultimi giorni se n’è accorta ed è insorta, mettendo in grave imbarazzo innanzitutto Obama.
È la stessa logica che lo ha ispirato nella ricerca di un rimedio al dissesto finanziario. In otto settimane si è sentito di tutto: bad bank, nuove norme contabili, salvataggi ad hoc.
Ieri Geithner ha annunciato un fondo misto pubblico-privato dove far confluire gli asset tossici.

Magnifico, eppure l’idea non è nuova e ricalca quella presentata in settembre da Henry Paulson, ministro del Tesoro dell’amministrazione Bush ed ex presidente di Goldman Sachs. Sì, tutto torna. E Rubin, nell’ombra, sorride.

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