L'intuizione è arrivata all'improvviso. Era un sabato mattina come molti altri, il professor Fabrizio Tagliavini stava aspettando sua figlia davanti all'uscita della scuola quando è «riuscito a riordinare magicamente i tasselli, come in un puzzle». L'antefatto: un giovane malato di Alzheimer. Il prologo: una scoperta che potrebbe cambiare il destino di moltissime persone. È cominciata così, «da un caso particolare» e da «un'intuizione improvvisa», la ricerca durata circa 4 anni, che rende possibile un nuovo approccio terapeutico a questa malattia, per ora incurabile.
La speranza arriva da Milano, perché è il risultato realizzato dai ricercatori della Fondazione Carlo Besta e dall'istituto Mario Negri in collaborazione con i colleghi dell'Università degli Studi e del Nathan Kline Institute di Orangeburg di New York, pubblicato sul prossimo numero della rivista Science.
La malattia di Alzheimer è la causa più comune di demenza, colpisce 450mila persone in Italia, oltre 6 milioni nell'Unione europea, cifre che raddoppieranno entro il 2050 a causa dell'invecchiamento della popolazione. Nel 97 per cento dei casi si manifesta in forma sporadica, solo nel 3 per cento è familiare. «E infatti anche il paziente da cui è partita la nostra ricerca non aveva casi del genere in famiglia», spiega il dottor Fabrizio Tagliavini dell'Istituto Neurologico Besta. Il suo identikit: «Giovane (39 anni), ma con una grave forma di demenza senile che invece, di solito compare più avanti negli anni». Dopo studi approfonditi su questo caso, i ricercatori di Milano hanno individuato un nuovo gene, o meglio la mutazione di un gene che si eredita da genitori completamente sani e provoca forme gravi di Alzheimer. La particolarità della scoperta: «Abbiamo capito che questa mutazione fa ammalare soltanto quando viene ereditata da entrambi i genitori: loro sono sani perché abbiamo osservato che chi ha una sola copia del gene mutato può arrivare a tarda età con un cervello che funziona benissimo». In pratica, quando si ha un gene come quello appena scoperto che è alterato e l'altro sano, la proteina normale neutralizza quella malata e così la persona malata non si ammala, nemmeno in età molto avanzata. Questo avviene perché la forma mutata di beta proteina identificata dai ricercatori milanesi, ha un comportamento biologico diverso da quelli osservati finora: infatti, si lega alla beta-proteina normale e blocca la formazione di amiloide e lo sviluppo della malattia.
«L'implicazione della nostra ricerca - continua Tagliavini - è strettamente rivolta alla terapia che potrebbe essere pronta nel giro di circa quattro o cinque anni». Il gruppo di ricerca infatti, ora lavorerà sugli sviluppi terapeutici della scoperta. «Sono stati generati animali transgenici per provare l'ipotesi di uso di peptidi mutati, prima di passare all'uomo» spiega il direttore del dipartimento di Malattie neurodegenerative della fondazione istituto neurologico Besta. Il percorso per trovare la cura richiederà molti anni di studio: secondo Tagliavini in cinque-sei anni ci sarà un'evoluzione nella diagnosi precoce e nella terapia, con farmaci che blocchino la malattia.
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