da Beirut
«Chiediamo all'esercito - visto che non l'ha fatto - di svolgere senza ritardi il proprio ruolo fornendo la dovuta protezione ai libanesi... imponendo stabilità in tutte le regioni togliendo le armi dalle strade, sgombrando i blocchi stradali e riportando alla vita la capitale». Dopo due giorni di silenzio assordante il premier Fouad Siniora riapre bocca e punta il dito sull'esercito. Quella frase sintetizza non solo i sospetti di tanti libanesi nemici di Hezbollah, dell'Iran e della Siria, ma anche i dubbi di molti alti ufficiali dell'Unifil costretti, per mandato, a collaborare con un«Armé» libanese pesantemente infiltrata dal Partito di Dio e dalle forze filo siriane.
Per tre giorni i libanesi hanno assistito sconsolati all'inerzia di un esercito immobile, indifferente e talvolta persino complice. Prima non ha mosso un dito per impedire alle milizie sciite di infiltrare ed espugnare le roccaforti sunnite poi, quando si è mosso lo ha fatto per sequestrare le armi agli sconfitti e difendere lo status quo imposto da Hezbollah. I militari comandati dal generale cristiano Michel Suleiman, ultimo e unico potenziale candidato alla presidenza, per due giorni hanno insomma abdicato al loro ruolo di istituzione sopra le parti e hanno accettato il gioco del più forte. Poi ieri sera hanno all'improvviso accettato l'invito del premier a trasformarsi in supremo arbitro. Per il governo Sinora umiliato e in ginocchio dopo la sfida ad Hezbollah la mediazione dell'esercito era l'unica ciambella di salvataggio per riallacciare una trattativa senza perdere la faccia.
La ritirata delle forze di Hezbollah da Beirut sotto scorta dei militari non chiarisce, però, i dubbi sulla credibilità di un'armata che conta al proprio interno generali e colonnelli assai vicini alla Siria e al Partito di Dio.
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