Cronaca locale

Generazione Ombretta Colli «Così costruivamo il futuro»

La senatrice ricorda: «Allora era tutto diverso, più allegro e semplice. Il Paese voleva crescere»

«Gli anni Sessanta sono stati fantastici. Il mondo era diverso, l’atmosfera della vita quotidiana allegra e semplice, senza dubbio migliore di quella odierna. Gli italiani si stavano rimboccando le maniche per costruire un futuro, per dare al paese una dimensione internazionale, e ci si divertiva molto. Si usciva la sera, tranquillamente, persino le donne sole. Amavano la notte anche coloro che la mattina dovevano recarsi presto in ufficio. Ci riunivamo in luoghi e locali senza bisogno di scambiarsi giri di telefonate, di sms, di e-mail come avviene al giorno d’oggi in cui tutto è divenuto complicato. Bastava recarsi la sera al Baretto, un locale vicino all’università, per sapere chi si trovava al cinema o chi era andato al ristorante. C’incontravamo senza fissare appuntamenti». Bastano poche parole ad Ombretta Colli per delineare l’atmosfera degli anni Sessanta, il periodo in cui iniziò la sua carriera di cantante e di attrice cinematografica e in cui conobbe e sposò Giorgio Gaber. La si ascolta con piacere. Nel suo racconto trapela la nostalgia, un allegria e quasi una commozione che sembra allontanarla dal presente.
«Assieme a mio marito andavo al cinema quasi ogni sera, se non lavoravamo. C’erano bravissimi attori - Paul Newman, Dustin Hoffman, Al Pacino - film come Il Padrino, Il dottor Zivago, quelli di Risi, di Zampa, di denuncia sociale interpretati da Alberto Sordi. Seguiva la cena e poi raggiungevamo un locale per ascoltare musica o cantare. Facevamo tardi, rigorosamente tardi».
Niente televisione?
«Al contrario. A volte si rimaneva a casa per seguire i programmi intelligenti della Rai, ancora in bianco e nero. Spettacoli di varietà piacevolissimi e penso a Studio Uno e alla sua galleria di ospiti famosi. Ho partecipato assieme a Paolo Villaggio, nel 1968, ad una trasmissione di Domenica In. Un’ilarità travolgente e Alighiero Noschese era un trasformista geniale».
La comicità, l’ironia avevano un’impronta differente?
«Non mancavano le battute sui politici ma facevano ridere, erano spiritose, non cattive come oggi. Adesso ridiamo sui difetti delle persone, ascoltiamo frasi pesanti. Si esagera».
In questi giorni Milano ha ricordato con affetto la figura di Giorgio Gaber. Suo marito riporta al clima di quei tempi.
«Milano ha voluto bene a mio marito, così come lui l’ha amata direi in modo quasi esagerato, tanto che partiva malvolentieri per le vacanze preferendo gustare la “meravigliosa Milano d’agosto”, vuota e silenziosa. Il ricordo di Giorgio Gaber va letto in una duplice prospettiva. Da un lato fa rivivere gli anni Sessanta, una Milano che non esiste più, dall’altro, i giovani, che si trovano ad affrontare un’esistenza complicata, sentono il bisogno di ascoltare la sua genuinità. Le canzoni di Giorgio hanno reso protagonisti gli emarginati, i ragazzi delle periferie in Lambretta, i bar, le taverne, i trani a go-go, quartieri come Porta Romana o il Giambellino. Uno spaccato di vita quotidiana, di gente semplice. Era un artista che ha avuto la lungimiranza di leggere la realtà, di guardare al futuro. Gli anni Sessanta, non dimentichiamo, sono stati gli anni in cui sono esplosi i cantautori. Prima c’erano gli autori delle parole, della musica e gli interpreti. In quel periodo, per la prima volta, i cantanti hanno iniziato a comporre da soli le canzoni. Gino Paoli, Tenco, Jannacci, se vogliamo lo stesso Celentano e Giorgio Gaber ed altri hanno scritto motivi bellissimi e il pubblico si identificava nelle loro canzoni. I testi dei cantautori non contenevano, come una volta, immagini di fantasia, astratte (la donna dai lunghi capelli biondi, il mare, amori sofferti), ma momenti di verità, di autenticità esistenziale vissuta giornalmente. Si viveva poi in un clima di effervescenza musicale irripetibile: i Beatles i Rolling Stones, Mina... ».
Come ha conosciuto suo marito?
«L’avevo incontrato mentre lavoravo al Piccolo Teatro, poi c’eravamo persi di vista. Anni dopo lo rividi in una strana circostanza. Una sera, appena tornata dall’Egitto dove avevo girato un film, alcuni amici romani m’invitarono con insistenza in una discoteca. Non volevo uscire, mi sentivo stanchissima. Fui costretta ad accontentarli e trovai Giorgio che il giorno dopo, contrariamente al suo carattere schivo, mi telefonò continuamente quasi senza lasciarmi respirare. Ci sposammo poco dopo, nel 1965. Evidentemente il destino unisce persone destinate a fare un percorso insieme».
Quali sono state le prime ombre a offuscare lo scenario di quel periodo?
«All’inizio degli anni Settanta. Quando l’esplosione giovanile dell’isola di Wight, della libertà sessuale, del poter presentarsi all’esame universitario senza cravatta è divenuta violenta. Prima le trasformazioni riguardavano il lavoro femminile, le gonne corte, i segnali di emancipazione della donna... Sappiamo quello che è seguito».
Cosa rimpiange maggiormente degli anni Sessanta?
«La capacità di sognare, la fantasia, la poesia della musica e la tranquillità dei nostri giorni.

Oggi siamo costretti a vivere blindati».

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