Qualcuno diceva: «Gioca. O sei fuori gioco». Di domenica la sveglia suona presto ugualmente ma anziché affrontare l’interrogazione di matematica, un baby-calciatore con gli occhi ancora stropicciati dal sonno, nel tragitto in macchina che porta al campetto, è spesso costretto a subire la carica d’incitamento del padre ultrà.
«Ragazzo mio devi giocare per vincere, perché solo i numeri uno passano alla storia», lo slogan paterno scandito tra la frenata improvvisa all’incrocio e la vena d’euforia che gli si gonfia sul collo. E pensare che per quel piccolo «Pulcino» di undici anni lo sport è solo motivo di divertimento con gli amici, oltre che d’orgoglio con le compagne di scuola. «Vai che sei un fenomeno, fammi vedere chi sei, tira, passa, buttalo giù e fregatene di tutti» raccomanda fiero con ritmo incalzante.
La trasformazione dei genitori in tifosi accaniti che si arrampicano sulle recinzioni urlando contro l’arbitro, che insultano l’allenatore se osa sostituire il figlio prodigio, che imprecano contro i parenti degli avversari fino ad arrivare alle mani, è ormai un fenomeno di portata mondiale.
La cronaca dell’ultima rissa fra genitori di sportivi viene infatti dall’Australia. Al termine di un match di rugby tra Under 12, Gary Harling - padre 42enne di un giocatore - è stato coinvolto in uno scontro furioso fra genitori rivali. Tre attacchi cardiaci durante il tragitto in ospedale, perdita di liquido cerebro-spinale, costole e orbite oculari fratturate ed ematomi sparsi, questa la diagnosi per Harling che è in attesa di un intervento chirurgico.
Superamento del limite certo, ma quali sono i confini dello sport? Conta più una soluzione che una semplice risposta e così, per porre fine a quella che chiamano «Sindrome da rissa», il Nuovo Galles del Sud, lo Stato più popoloso del continente australiano, ha intenzione di vietare l’ingresso ai genitori durante i tornei giovanili di rugby. Figli che rimangono «orfani» soltanto per il tempo di una partita.
Giocando in casa, abbagliati dai gol di Ibra, Totti o Del Piero, spesso ci si dimentica che anche gli spalti dei campetti da calcio italiani sono teatro di risse tra genitori ultrà. Meno di un anno fa è bastato un rigore fischiato contro la squadra del figlio, durante la sfida del campionato regionale tra il Terracina e la Romulea, a far estrarre la pistola a un imprenditore edile di Sonnino (Latina) nel mezzo di una lite fra parenti antagonisti. E due mesi fa in provincia di Venezia un’espulsione nel mezzo della partita juniores fra Ac Mestre e Real Campalto ha innescato un meccanismo di rivolta sfociato in una baruffa di venti persone fra cui parenti, amici e fidanzate che si sono poi ritrovate in ospedale. In provincia di Pavia difficile dimenticare l’epilogo della sfida tra Giussago e Alleanza Casei Gerola, quando si è scatenata un maxi-rissa a suon di pugni e calci tra i genitori delle due tifoserie, sedata soltanto grazie all’intervento delle forze dell’ordine. E la rassegna dei genitori-italiani-ultrà finisce qui solo per ragioni di spazio.
Gli atteggiamenti dei «genitori-hooligan» non fanno altro che scoraggiare i figli. Basti pensare allo sciopero rivolto contro i papà e le mamme dei «Pulcini» del Ponte a Elsa, vicino a Empoli a fine 2007. Gli stessi baby-calciatori, classe 1997-98, non sono scesi in campo in segno di protesta contro i genitori, mostrando loro cartelli significativi: «Gli sbagli degli adulti uccidono il nostro gioco» o «Non rovinate il divertimento dei vostri figli».
Per Carlo Napolitano, pediatra ed esperto sportivo, «la Sindrome da rissa deriva dalla frustrazione dei genitori che vorrebbero dal figlio i risultati eccelsi che loro non hanno mai raggiunto».
Dove è andata a finire quella sana cultura della sconfitta, che rendeva lo sport divertente ed educativo al tempo stesso? I genitori ultrà hanno il dovere di riflettere. E i loro figli il diritto di non essere campioni.