Genoa 2008, quando il calcio sa essere arte

(...) uomini di Gasperini si sono superati. Partendo decimati dalle assenze - addirittura senza il regista titolare, Milanetto, e l’uomo più in forma, uno che in questo momento è il calcio allo stato puro, Palladino -, non riuscendo a segnare nel primo tempo solo e soltanto per sfortuna, dominando l’Inter capolista, subendo una decisione arbitrale ingiusta, giocando quasi quaranta minuti con un uomo in meno e, addirittura, rischiando di vincere all’ultimo minuto. Insomma, roba da Genoa. E dico tutto questo indipendentemente dal risultato della partita (difficilissima, proprio perchè arriva dopo una prestazione simile) di questa sera contro il Cagliari.
Sta di fatto che ribadisco il concetto delle scorse settimane. Per raccontare tutto questo, serve l’epica. Per raccontare tutto questo, servono anche giornalisti. Non occorrerebbe aggiungere aggettivi, ma purtroppo la lettura quotidiana dei giornali li richiede: «giornalisti seri», «giornalisti veri», «giornalisti obiettivi», «giornalisi onesti»... e potrei continuare per pagine. Ma il concetto è chiaro: chi scrive di sport - a mio parere, ovviamente, non sono la Bibbia e non me la tiro da quello che è la Bibbia, a differenza di tanti colleghi, soprattutto di quelli senza alcuna credibilità - deve avere la capacità, la forza e il coraggio di lasciarsi andare, sia nel bene, sia nel male. Deve avere la capacità di volare altissimo, quando qualcuno se lo merita, senza la paura di spendere un aggettivo in più. O di sparare ad alzo zero, senza paura della reazione della società, quando vede qualcosa che non gli piace.
Ecco, questo articolo, fondamentalmente vuole essere un appello. Un appello - anche ai genoani, a quelli che volevano crocifiggere Gasperini dopo Palermo, a quelli che «comunque Preziosi non mi convince», a quelli che rimpiangono ancora Figueroa o che sognano il tandem con Milito convinti di essersi visti passare davanti il più grande fenomeno della storia - a saper volare alto. A usare i toni dell’epica quando ci vogliono. E casi come la partita dei rossoblù di domenica a Milano (o tutte le precedenti a Genova di quest’anno), sono quei casi in cui i toni dell’epica ci vogliono.
So già che questo articolo mi attirerà qualche critica doriana. Che sarò tacciato di essere un bieco genoano (come, al contrario, venivo tacciato di essere un bieco blucerchiato quando dicemmo la triste verità sul rischio di serie C dopo Genova-Venezia). Ma è proprio questo che voglio far capire: il discorso sul Genoa di quest’anno prescinde completamente dalla fede calcistica.
Quando Omero raccontava di Itaca o di Troia, non faceva il tifo. Ma rispettava ad amava i suoi personaggi che meritavano di essere rispettati ed amati indipendentemente dal colore delle loro uniformi. E qui è la stessa storia: è epica, al di là dei nuovi rischi di infortunio, la storia di Claudio Bellucci, grande uomo e grande giocatore che torna dopo un bruttissimo infortunio, trascina la Sampdoria e segna.

Così come è epico il Genoa di San Siro, qualcosa che va al di là della nostra capacità di raccontare. Qualcosa che, come Bellucci, fa battere il cuore.
Poi, se qualcuno la butta su «Lussana è tifoso» di una o dell’altra squadra, allora non ha capito niente. Problemi suoi.

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