Tra arte orientale e scultura si salva solo il Risorgimento

Sui tre fogli A4 pinzati con una graffetta che ci danno all'ingresso, c'è scritto che questo «è il principale museo di scultura della Liguria, l'unico che proponga un percorso completo della scultura genovese dall'alto Medioevo all'età moderna, con suggestive digressioni verso gli ambiti francese, romano, lombardo e toscano».
Piazza Sarzano, Museo civico di Sant'Agostino. Il viaggio negli istituti di cultura di Genova continua. Dopo quelli di Strada Nuova, con il degrado e l'incuria di Palazzo Rosso, ci spostiamo nel cuore della Superba. E qui a pochi passi dalla Facoltà di Architettura, entriamo nell'antico convento agostiniano che ospita il museo. Il giro inizia con un lungo corridoio di affreschi al piano terreno e in fondo, nascosto in un angolo non troppo piccolo, un pullmino parcheggiato a pochi centimetri accanto alle tele. Su un largo scalone, saliamo al primo piano dove si apre un'ampia distesa di statue in marmo, lastre, monumenti funebri e capitelli. Ma le targhette ad indicare le opere d'arte sono vecchie, alcune corrette persino a penna, le tende che circondano i quattro lati dell'edificio sporche, logore e annerite dal sole che entra dalle finestre. Su una parete, ci sono i segni delle posizioni precedenti dei singoli pezzi che sono stati poi spostati dall'altro lato del corridoio, lasciando sul muro così come sul pavimento le tracce dell'antica postazione. Così come di un precedente allestimento, sono testimonianza anche i ganci di metallo che penzolano nudi e vuoti ai muri. Qui la sezione della pittura da Bisanzio al Rinascimento è l'ala tenuta meglio e più curata, così come quelle dedicata alle ceramiche. Ma di visitatori non c'è nemmeno l'ombra, a parte noi, ci sono soltanto i custodi ad accompagnarci silenziosamente da una stanza all'altra.
Piano secondo, sovrapporte in ardesia del XV secolo, il David Vincitore di Guglielmo della porta, gli affreschi di Domenico Piola, Valerio Castello e Gregorio De Ferrari del XVII secolo e la Madonna col Bambino e il ratto di Elena di Pierre Puget. Così dice il foglio A4 che dovrebbe essere una guida, un depliant, in versione molto ruspante o più semplicemente «sciatta». Peccato che qui al secondo piano, l'ultima parte della grande stanza sia trattata al pari di un deposito, con un affresco di Bernardo Castello appoggiato a terra e ricoperto di polvere quasi lì da tempo immemore, cornici vuote e muri spogli. Lasciamo il Museo di Sant'Agostino con un bilancio, oltre a quello dello stato di conservazione: visitatori, zero. Custodi, cinque.
Continuiamo il tour, e questa volta ci spostiamo verso il Museo d'arte Orientale Chiossone arrampicato sopra piazza Mazzini e in mezzo al parco di Villetta Di Negro. La vista sulla città, così come quella da Palazzo Rosso, è spettacolare. Incantevole. Non altrettanto invece l'istituto dove sono conservate opere d'arte orientale. L'impatto con la prima sala è con una serie di sedie distrutte, con la telastrappata e ingiallita dal tempo. In mezzo alla stanza, statue di divinità buddhiste, icone sacre alle religioni orientali circondate da tende sporche e rattoppate con lo scotch e segnalate da targhette malmesse. E un pianoforte a coda che troneggia, resto forse di un concerto precedente. Gli altri piani del museo offrono parecchio materiale per gli appassionati dell'Oriente, peccato che non altrettante cura venga riservata al contesto in cui sono inserite le opere d'arte. Uno, due, tre piani: visitatori, zero.
Il giro nei musei civici del centro prosegue. Ci feriamo in via Lomellini al Museo del Risorgimento, dove si trova anche la casa di Giuseppe Mazzini. E dopo una prima sala in cui il servizio multimediale non funziona, il resto merita davvero la visita. Per il materiale conservato ed esposto, dalla giubba rossa e il bastone di Garibaldi, alla camera di Mazzini con lo scrittoio, i quaderni, gli occhiali da vista e gli scacchi. Oltre al panciotto e al panno che un tempo fu di Carlo Cattaneo e poi andò all'eroe della patria. Al terzo piano, le armi che usarono i garibaldini per fare l'Italia unita e le divise. La storia dell'Inno di Mameli e i cimeli delle battaglie combattute in nome della Libertà.

Finalmente un museo dove la storia e l'arte trovano il loro posto e vengono trattate con il dovuto rispetto. Dove il tempo trascorso tra bacheche e cimli è un percorso di conoscenza e accrescimento, e non un viaggio desolante nell'indifferenza verso i nostri tesori.
(2 - continua)

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