Caro dottor Lussana, bella e gentile la sua disponibilità ai ricordi che si riferiscono alla nostra cara e amata città ed io, con i miei novanta anni suonati e con nascita e gioventù in quella che fu Piccapietra, tanti ne avrei da raccontare di quel rione dove la povertà sapeva fare dell'autoironia ma con dignità. Sono l'ultima di una numerosa famiglia e l'unica ancora in vita. Tutti nati e cresciuti in vico Tintori in un appartamento in concessione a dipendenti dell'Amministrazione degli Asili Infantili essendo stata mia nonna paterna direttrice e sua figlia maestra. Sullo stesso pianerottolo altri due appartamenti e al piano di sotto l'Asilo per i bimbi «Slattati» ovvero quelli inferiori ai tre anni di età dove le mamme portavano i loro piccoli prima di recarsi al lavoro che non era, sicuramente, dietro a una scrivania.
Ad accudire questi bambini, assai numerosi, c'erano tre donne una delle quali, forse l'unica che sapeva leggere e far di conto, con responsabilità di direttrice. Noi di sopra sentivamo tutti i metodi canori usati dalle tre donne per ammansire i piccoli che strillavano troppo. Nello stesso vicolo c'era l'asilo per i bimbi in età prescolare con grandi aule e banchi e un grande terrazzo-giardino che guardava su via Cebà bella, aperta, luminosa strada sulla quale si affacciavano i palazzi della Galleria Mazzini. Questa via conosciuta dai «giovanotti» dell'epoca per la presenza a capo della stessa di una lussuosa casa di tolleranza, era molto viva per le botteghe di artigiani che ivi svolgevano varie attività e in una di esse mio padre ci ha fatto crescere con il suo lavoro di tipografo.
Le botteghe degli artigiani in via Cebà
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