Il produttore che fa rivivere il vino estinto da 400 anni

Si dice che nelle cantine del Re d'Inghilterra, il moscatello di Taggia fosse l'unico vino per cui vigeva l'assoluto divieto di «taglio» con altre bevande alcoliche. Un riguardo giustificato, per un bianco secco ricavato da un'uva tipica dell'entroterra taggiasco che, dal Trecento al Seicento, partendo dal porto dell'attuale Riva Ligure, fu conosciuto e apprezzato in tutta l'Europa. Secoli di gloria prima della (quasi) totale estinzione del vitigno, dovuta a una grave malattia delle piante. Fine di una leggenda? Probabilmente sarebbe andata così se non fosse stato per Eros Mammoliti, piccolo produttore vinicolo di Ceriana, che ha regalato al moscatello un inaspettato lieto fine, resuscitandolo e ottenendo proprio la scorsa settimana la formale approvazione della commissione di controllo dei vini doc della Riviera di Ponente. Ora potranno essere commercializzate bottiglie con quel nome storico sull'etichetta.
Com'è possibile? È lo stesso Mammoliti a raccontarlo: «È stato un lavoro lungo dieci anni, in cui è stato fondamentale l'apporto dell'Università di Torino e del Consorzio del moscato di Asti. Abbiamo ricercato nelle valli Argentina e Armea alcuni ceppi che potevano corrispondere all'antico moscatello. Di 67 piante candidate, ne sono state individuate tre, soltanto una delle quali era perfettamente sana». Di lì è rinata la coltivazione, come un'araba fenice. La quasi estinzione era arrivata all'inizio del Settecento: nel 1709 una gelata distrusse gli oliveti della Costa Azzurra; l'urgente richiesta di olive aveva così indotto molti coltivatori dell'Imperiese a cavalcare il business e a riconvertire i loro vitigni. Il resto lo fece la filossera, un parassita che poco dopo distrusse anche quel poco che era rimasto della coltivazione. Adesso la rinascita, che l'artefice ha potuto annunciare nel corso della manifestazione «Meditaggiasca», nell'antico monastero della Madonna del Canneto a Taggia.
Un weekend gastronomico in cui in realtà il vino era soltanto un comprimario, essendo protagonista l'oliva taggiasca e l'olio di decine di piccoli produttori locali che si attengono alle regole più severe: soltanto olive della famosa varietà locale, spremitura a freddo, e nessun gridolino di orrore se l'olio risulta torbido: le qualità organolettiche sono garantite anche dalle particelle di polpa disciolte nel prodotto. «Il nostro olio è unico al mondo - spiega un accorato Luciano Beranger, presidente dell'associazione di olivicultori "L'oro di Taggia" - ma ce lo siamo lasciato scappare. Basta guardare Google: la ricerca di "oliva taggiasca" dà 700mila risultati, quella di "Taggia" ne dà 300mila. Eppure il nostro è l'unico olio italiano davvero delicato: non è un condimento, ma un alimento di per sé». Con l'olio locale si sono cimentati, nel corso di «Meditaggiasca», chef noti in tutto il mondo.

Primo l'argentino Mauro Colagreco, che ha a Mentone la propria base operativa ma ha aperto di recente un locale a Shangai. Un modo per contarsi e per dimostrare che Taggia, col vino e con l'olio, è ricca di tesori dorati.

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