Quella «taggiasca» che dona il fruttato all'extravergine

Rimestare nel torbido può essere considerata un'attività lodevole? Sì, se si parla di olio. Che, per essere considerato autentica spremuta di olive, non deve lasciar passare luce in mezzo. Torbido, appunto. È un passaporto per la bontà, un'assicurazione sul gusto: lo afferma un gruppo di esperti e piccoli produttori dell'Imperiese guidati dal decano del settore Sergio Calcagno (è stato per anni il deus ex machina della storica azienda Ardoino), che stanno conducendo una battaglia di principio.
«C'è un modo semplice per proteggere l'olio d'oliva della nostra zona: farlo bene». Vale a dire utilizzando solo olive taggiasche, spremendole con modalità meccaniche e ottenendo dalla loro spremitura un prodotto con acidità minore o uguale allo 0,8 per cento: lo standard che definisce l'olio extravergine. Un'operazione tanto semplice a descriversi quanto difficile ad eseguirsi.
Perché la qualità costa, e secondo i produttori più ortodossi non è abbastanza tutelata, almeno qui in Italia. «I francesi - è sempre il battagliero Calcagno a parlare - quando sentono parlare dell'oliva di Nyons, una varietà del sudest, si commuovono e infatti sono disposti a pagare 30 euro per un litro di relativo olio». L'affermazione è facilmente verificabile varcando il confine e dando uno sguardo agli scaffali di un qualsiasi supermercato francese. Al di qua delle Alpi, invece, il discorso si fa più complicato. «Anche noi vorremmo fissare i prezzi più in alto per tutelare l'olio di oliva taggiasca, ma il mercato in Italia è condizionato da un po' troppe ambiguità», allarga le braccia Stefano Roggerone, contitolare assieme ad Anna Ardoino di «Extra», un'azienda nuova di zecca. Ambiguità riscontrabili sulle etichette: «Olio di olive taggiasche» è la dicitura che inequivocabilmente rimanda al prodotto locale puro. Ma «Olio di Taggia», per esempio, pur rievocando il territorio, non garantisce nulla.
Insomma, poca chiarezza uguale poca tutela dei prodotti fatti con procedure più nobili ma costose. Una legge («il cui decreto attuativo aspettiamo con ansia», precisa Roggerone) più restrittiva riguardo le scritte sulle etichette dell'olio è stata approvata lo scorso 14 gennaio; in attesa dei suoi effetti pratici, il consumatore deve difendersi con la cultura e l'osservazione. Così, il primo consiglio dei produttori «puristi» è quello del colpo d'occhio. E qui interviene la memoria storica Calcagno: «Quello della purezza dell'olio limpido è una leggenda nata ai tempi di Carosello - si infervora - quando una nota marca faceva leva proprio sulla trasparenza del prodotto. Quando ho iniziato ad occuparmi d'olio, mi sono accorto che diversi ristoratori mandavano indietro le bottiglie perché disturbati dalla torbidità. Invece la trasparenza può essere dovuta al processo di “rettifica”, cioè deodorazione e decolorazione, di olio troppo acido». Un'operazione perfettamente a norma di legge, il cui risultato è però qualcosa di diverso dalla «spremuta di olive» con cui il consumatore vorrebbe intendere il prodotto che porta in tavola. Proprio per superare il pregiudizio Calcagno sostiene di avere inventato la fasciatura in carta d'oro per le bottiglie. «Ora però vorrei che tutti la togliessero, perché si sappia che l'opacità non è una vergogna ma un vanto». Tra gli altri luoghi comuni contro cui combattere, «quello per cui l'olio di semi è sarebbe più dietetico: in realtà - incalza Roggerone - tutti gli oli danno lo stesso contributo calorico: nove calorie al grammo. Ma l'olio di oliva - prosegue - è più saporito, per cui si tende a usarne meno. Ecco così che, se proprio vogliamo fare un confronto, il nostro olio diventa il più indicato per chi non vuole appesantirsi».
Un po' più a monte di queste battaglie, ferve attività di un gruppo di oleicoltori che, per portare in alto (in tutti i sensi) il nome del loro prodotto, coltivano le olive taggiasche nell'entroterra di Arma, ad un'altitudine di 900 metri. Con un migliaio di ulivi il capofila è Jose Littardi, sindaco di Baiardo, comune montano di 300 abitanti. Altri tre colleghi lo seguono a poca distanza, mentre decine di piccolissimi produttori percorrono la stessa strada in salita verso la qualità. «Abbiamo ottenuto - annuncia Littardi - la dop “Olio di montagna”». Le regole: «Olive taggiasche coltivate tra i 550 e i 900 metri sul livello del mare e nei territori del comune di Baiardo e limitrofi». La produzione, tra i 50 e i 100 quintali all'anno, è di culto tra gli appassionati convinti che l'olio sia una vera ricchezza.
Un pensiero supportato da autorevoli testimonianze. Negli anni Ottanta Luigi Veronelli sosteneva che se la Calabria avesse saputo valorizzare il proprio patrimonio oleario avrebbe potuto rivaleggiare economicamente con la Lombardia. «E noi non ce l'abbiamo questo patrimonio?», si chiede retoricamente Calcagno.

«Abbiamo una varietà di olive che mezzo secolo fa veniva esportata sotto il nome di “olives de Nice” perché “taggiasca” non diceva niente a nessuno. Ora la situazione è migliorata ma bisogna fare di più: stiamo dilapidando un patrimonio». Perché nell'Imperiese sono convinti che non ci sia un olio migliore al mondo.

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