Caro Lussana, ma guardi un po' il caso! Nella medesima pagina (2 aprile 2013), dove prendendo lo spunto dall'omaggio letterario inviato da un lettore toscano, lei annuncia la preparazione di un volume-gioiello ove saranno raccolte tutte le nostre memorie delle cose perdute e laboriosamente ricostruite sulle pagine de «il Giornale» durante la scorsa estate, nella stessa pagina - dicevo - la vostra Monica Bottino ci racconta la storia dell'abbazia di San Fruttuoso e delle tombe dei D'Oria, donate al Fai nel 1983 dalla principessa Orietta, ahimè, ormai non più tra noi.
Ebbene, proprio su San Fruttuoso vorrei ricostruire il mio ricordo di una stagione della vita irrimediabilmente perduta, Si tratta (come tutti sanno, o dovrebbero sapere) di una piccola perla incastonata in un'insenatura del promontorio di Portofino, giusto a metà della costa tra Punta Chiappa e la punta del faro, appunto di Portofino.
Vidi per la prima volta le trifore dell'abbazia, in lontananza, dalla prua del vaporetto Primero, che provenendo da S. Margherita e virando lentamente a dritta, entrava nell'insenatura apprestandosi all'attracco alla piccola banchina. Era un'imprecisata, luminosissima mattina d'agosto dell'anno 1946.
Il mio sguardo fu subito calamitato all'austera, essenziale, rigorosa bellezza di quelle dieci trifore con le loro colonnine di marmo bianco, che si stagliavano sulla superficie inondata di sole della facciata dell'ex convento. Leggermente rientranti rispetto alla facciata e contenute in altrettante nicchie a forma di arco a sesto acuto, davano all'insieme un senso di solennità misto a quella leggiadria, che i maestri dell'architettura italiana hanno saputo trasfondere nelle loro mirabili opere, nella prima metà dello scorso Millennio.
Sopra, troneggiava il massiccio campanile dal tetto spiovente ricoperto di lastre d'ardesia, con le sue sottostanti bifore. Sotto, si aprivano tenebrosi gli archi (vorti) a tutto sesto, terminanti in massicci pilastri che sprofondando nella spiaggia di ciottoli e poggiando in profondità su solidi scogli, hanno retto tutto il complesso abbaziale per circa mille anni.
Quel giorno - stavo per compiere i sedici anni - mai avrei potuto immaginare quello che sarebbe stato il mio futuro rapporto col borgo. Facevo parte di una numerosa compagnia di giovani e meno giovani che, già pratici del luogo, mi iniziarono all'apprezzamento delle bellezze del promontorio e alle squisitezze della cucina locale. Oltre alla trifore dell'ex convento, rimasi folgorato dalle lasagne al pesto della signora Laura e dai «muscoli» alla marinara scrupolosamente manipolati e privati del peduncolo (prima della cottura) dal marito Min (a proposito dei muscoli, è opportuna un'annotazione lessicale, per i non liguri, si tratta delle «cozze» e per i puristi, dei «mitili»).
Detto questo, procediamo con ordine. Cominciai a frequentare il borgo in ogni giornata libera, dagli studi prima e dal lavoro poi. D'inverno, in giornate di forti mareggiate, l'accesso a San Fruttuoso era possibile solo via terra, su sentieri che si snodavano attraverso il «Monte» sia da Levante (S. Margherita e Portofino) sia da Ponente (Camogli e Ruta). Dal primo itinerario si convergeva sulla« Base O», per poi discendere un ripido sentiero fino alla spiaggia. Dal secondo, si giungeva alla località «Pietre strette», per poi precipitevolissimevolmente quasi rotolare alle spalle del borgo, anche in questo caso fino al mare. Si arrivava magari un po' stravolti, ma a quell'età ci si poteva permettere quello ed altro.
Con gli anni di frequenza si accumularono anche le esperienze culinarie. Le lasagna si alternavano alle caponade, ai pansoti col prebuggiun e salsa di noci, ai fritti misti ove figurava di tutto un po' (acciughe, pignolini, seppiette, gamberi, moscardini), ai pagelli al forno, agli spaghetti alla marinara (al sugo di muscoli con olio e prezzemolo più uno spicchietto d'aglio), alle seppie in umido con piselli. Senza mai omettere le gallette, che era d'obbligo provenissero dal forno di S. Rocco (Ruta) o da quello di S. Siro (S. Margherita), ambedue noti per l'accuratezza dell'impasto e della cottura. Quando si mangiava il polpo condito con olio e prezzemolo, era essenziale che il cefalopode fosse stato bollito a lungo con l'immancabile tappo di sughero. Perché altrimenti....
Poi c'erano i bagni. Paolito era il re della spiaggia. Lui, coadiuvato dal nipote Marietto, gestiva da tempo immemorabile lo «stabilimento» costituito da una piattaforma (ü palcu) in legno, poggiata su alcuni pilastri di cemento armato ad un paio di metri d'altezza rispetto alla spiaggia. Sul palcu, addossate al muro retrostante, vi erano sei o sette dignitose cabine in legno, scrupolosamente dipinte di grigio con chiavi in ottone alle quali era assicurata una natta di sughero con funzione di galleggiamento, a beneficio di turisti distratti. Sul davanti, fino all'impavesata, un poco di spazio era riservato a quattro sedie a sdraio e tre ombrelloni, disponibili per i clienti in transito da e per le cabine. Infine, una scaletta portava al ristretto piano superiore, ottenuto sotto un'arcata in cemento del sovrastante ristorante «Da Giovanni», ove erano state ricavate alcune altra cabine in muratura. Sotto al palco, un poco appartato, un piccolo «vano doccia» disponibile tra gli scogli emergenti (con raccomandazione di permanenze brevi, stante la scarsa disponibilità d'acqua).
La metà di ponente della spiaggia era riservata a sdraio e ombrelloni dello stabilimento, mentre l'altra metà era «spiaggia libera». Qui, Pippo (anziano ex pescatore detto Satana), gestiva altre sdraio affittate a un tanto all'ora. Sul retro, al limitare della spiaggia libera, c'era il banchetto della Lina, con souvenir di varia natura: dai baschi di maglia con relativo pon pon, alle conchiglie provenienti dall'Oriente e molto altro.
Infine i barcaioli, Piero, Tilin, Garibaldi, Ugo e qualche altro occasionale. Il loro itinerario era la mini-gita fino al Cristo degli Abissi si fa per dire: la statua - opera di un noto scultore genovese - era immersa su piedistallo in cemento a 17 metri di profondità. Era visibile (con mare calmo e acqua pulita) tramite «lo specchio» (imbuto in plastica con impugnature che terminava con un cristallo fissato all'estremità più larga) che, sporgendosi dalla barca, permetteva la visione del fondale.
Per ultimi, impossibile dimenticare il contadino, fattosi pescatore e allevatore di capre, detto Bedonia (proveniente, chissà come e perché, da quella località dell'Appennino ligure-emiliano) e i fratelli Rossi (Arturo e Piero) che, dalla campagna veronese, le vicende della 2ª guerra mondiale spinsero, indossando le stellette, fino alla costa ligure ove si accasarono, divenendo anche loro pescatori e barcaioli. Da tributari di Can Grande a marinai di Andrea D'Oria.
Tutte figure legate a un passato che il trascorrere del tempo sbiadisce sempre più, ma che a tratti, inopinatamente, riemergono vivacemente come i flash-back tanto usati dalla cinematografia.
Purtroppo molti di costoro sono ormai scomparsi. Ma contrariamente alle cose dei nostri racconti, continuano a vivere nel ricordo e nei sentimenti di chi è loro sopravvissuto.
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