2 RICORDI DI RAGAZZA
La scuola dalle Immacolatine
e la panetteria che non c'è più
Caro Massimiliano, ricordi di tempi passati e di una Genova del tempo che fu, amarcord, tutti sogni e speranze per il nostro presente ricco in tecnologia ma latente in valori e ricchezza interiore. La mia madelaine di oggi mi riporta a quando frequentavo le scuole medie presso le Suore Immacolatine di San Martino.
Il mio tragitto sull'autobus n. 17 in corso Europa si fermava all'altezza dell'ospedale di San Martino e dopo l'attraversamento iniziava una strada in salita che approdava direttamente al sopracitato Istituto. In questa salita esisteva una panetteria, oramai purtroppo chiusa. Ricordo esattamente come fosse ora la presenza di un'autovettura, un'«autobianchina» marca Fiat che definirei auto portapane per eccellenza. Si trattava di un'auto adibita in particolare al trasporto di cesti in plastica bucherellati color crème contenenti pagnotte di ogni tipo e montagne di focaccia che venivano sistemate sul bancone del panificio in questione per essere smistate ai ragazzini di turno che gioivano dei profumi dati dalla panificazione e della loro colazione o della pausa in classe a metà mattinata. La conformazione di tale auto fatta come una sorta di piccolo vagoncino permetteva il trasporto di pacchi piuttosto ingombranti come quelli descritti.
Questa mattina ho gioito di questo ricordo dopo aver notato in Via Bertani, sempre di fronte ad una scuola, un'autobianchina d'antan. Colore differente - rosso- (il colore usuale all'epoca era pastello, bianco, panna, azzurrino, verdolino, verdone se non ricordo male per le autobianchine usate dagli idraulici), situazione differente anche se legata ad una scuola e soprattutto utilizzo diverso in quanto la Fiat di oggi viene impiegata per accompagnare i figli a scuola, mentre la sottoscritta era abituata a recarvisi da sola assieme a qualche amichetta incontrata sullo stesso cammino in bus per poi soffermarsi ad un panificio per acquistare poeticamente un etto di focaccia per la propria colazione altrettanto poetica e semplice. Il tutto in contrasto con la realtà odierna che vede i più giovani degustare una colazione non a casa in compagnia dei propri genitori e neppure presso una panetteria ma addirittura seduti ad un tavolo di un bar con tanto di sigaretta. Altri tempi, altri valori ma da tenere sempre presenti ancora oggi, grazie ad un «autobianchina» che per me rappresenta la mia «madelaine» del passato, del presente e del futuro.
Roberta Bartolini
2 IL MONUMENTO DI STAGLIENO
Le «reste», collane di nocciole
di Caterina Campodonico
Caro Massimiliano, «a sun de vende raetse e canesrelli/ à l'Aegua-Santa, au Garbu, à San Seprian/ cu-u u ventu, u su, cun l'aegua zù a tinelli/ a-a me vegiajia pé asseguaghe un pan/ fra i pochi soodi m'ammuggiava quelli/ pé tramandamme àu tempu ciù luntan/ mentre sun viva e sun vea Purtuianna/ Cattainin Campudonicu a Paisanna!/ Pe queste mae parolle, se ve piasge/ vuiatri che passèe preghème pasge» (a forza di vendere reste e canestrelli/all'Acqua Santa, al Garbo, a San Cipriano/ col vento, il sole, con l'acqua giù a mastelli/ per assicurare un pane per quando sarò vecchia/ fra i pochi soldi risparmiavo quelli/ per farmi ricordare nel tempo più lontano/ mentre sono viva e sono vera portoriana / Caterina Campodonico, la Popolana! Per queste mie parole, se vi piace/ voi che passate pregatemi la pace!); questi versi dell'Orengo sono incisi sul basamento dello stupendo monumento del Vigo esistente al Cimitero di Staglieno ed eretto in memoria di Caterina Campodonico, una venditrice ambulante di reste (collane di nocciole fatte bucando il frutto completo del guscio ed infilandone poi una serie su un pezzaccio di spago da annodarsi per tenerle unite) e di canestrelli (ottenuti dall'impasto di sola farina ed acqua ed un pizzico di sale), nelle fiere di paese o sui piazzali dei tre Santuari citati esistenti nei dintorni di Genova; la firma è stupenda: Caterina Campodonico, «vera Portoriana», originaria cioè di Portoria, e «la Paesana»: due qualifiche proposte e portate con orgoglio.
Bene, fra le cose perdute ricordo appunto le «raeste» che le bambine si facevano comprare per adornarsene come di preziosi monili, e soprattutto i canestrelli: nulla da spartire con quelli di oggi ripieni di burro zucchero ed ornamenti vari: quelli erano delle robuste e massicce ciambelline della sezione di un dito indice, larghe più o meno 6 centimetri, e si mangiavano prevalentemente inzuppate (asciutte era impossibile!) in una tazza di latte caldo in cui si erano già messe abbondanti castagne bollite e private della buccia (le «pelate») e zucchero. Che sapori indimenticabili!
Luigi Parodi
2 RAGAZZI DEGLI ANNI TRENTA
Giocavamo con le «grette»
e guardavamo i film Luce
I miei compagni tifavano per il ciclismo. Gli idoli erano Olmo, Guerra, Binda e altri. Sulle strade meno frequentate, come quella via dove abitavo, i ragazzi tracciavano, sull'asfalto, due strisce parallele e tortuose che rappresentavano il percorso dentro il quale, facevano scorrere, con dei colpetti dati con uno scatto del pollice tenuto dall'indice, le «agrette» (cioè quei tappi di metallo che chiudono le bottiglie di bibita). Nella parte interna di questi tappi veniva incollata, dopo averla ritagliata da qualche figurina, la faccia dei corridori). Chi usciva dal percorso tracciato col gesso, doveva fermarsi e aspettare un altro turno. Vinceva, ovviamente, chi arrivava primo al traguardo.
Da parte mia, al di là, del fatto che non mi era consentito andare a giocare in strada, non avevo la passione né per il ciclismo né per il calcio (ancora non ancora così esageratamente seguito dalla massa). L'unico sport che mi eccitava era l'automobilismo e, quando avevo l'avventura di vedere spezzoni di corse nei film Luce, mi immedesimavo in Fangio, in Nuvolari, in Caracciola.
Un'altra attività mi entusiasmava ancor più: l'Aviazione. Sognavo di diventare un grande pilota come il Baracca, il D'Annunzio, o come il più recente maresciallo Agnello, che aveva stabilito un primato di velocità per idrovolanti con un Macchi-Castoldi. Ma tutto ciò non vinceva la mia abulia.
Nel maggio del 1936 mio padre, tornando a casa dal Comando Marina dove era stato assegnato nel febbraio dell'anno precedente, disse trionfalmente: «La guerra con l'Etiopia è finita. Badoglio è entrato ad Addis Abeba». Anch'io dimostrai di essere contento della vittoria italiana, ma, in realtà, non me ne importava molto anche se, come tutti in casa, sin dall'ottobre del 1935 seguivo mio padre che, giorno dopo giorno, metteva sulla mappa della regione, una bandierina sulle località raggiunte dalle truppe italiane.
2 PENSIERI IN RIMA
Alla mamma nel giorno
più lungo dell'addio
Aveva tanti anni la mia mamma.
Antonio Urbano
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