Verdeal, il campione che anticipò di 60 anni il calcio moderno

Verdeal, il campione che anticipò di 60 anni il calcio moderno

Alto, biondo, occhi azzurri, ben vestito. Strapagato. Con un debole per le belle donne. Consapevole delle proprie capacità, orgoglioso di essere amato. Ma soprattutto campione senza limiti, con una classe unica, pronto a lasciare il Sudamerica per venire a giocare in Italia, nel Genoa, perché i professionisti fanno così.
I sogni dei tifosi rossoblù non vanno riposti nel cassetto. Anzi, stavolta il cassetto è proprio da aprire, da estrarre fino in fondo, per tirar fuori l’immagine di quel fuoriclasse che risponde al nome di Juan Carlos Verdeal. Una figurina in bianco e nero, colorata solo con i ricordi di qualche nonno che con le sue emozioni raccontate senza mai stancarsi riesce a farlo riapparire sul prato del Ferraris. Un mito datato 1946. Eppure un calciatore così moderno, attuale. Così tutto casa, campo, conto in banca e, se del caso, qualche velina d’antan. Addirittura capace di andar via di casa, «rapire» la figlia e tornare con lei in Argentina. Verdeal, protagonista di un calcio in cui i giocatori di serie A che avevano il treno da prendere uscivano dal campo e lasciavano la squadra in dieci, era diverso dagli altri. Era un professionista vero come lo intendiamo oggi. Se le sue finte, il suo palleggio o i suoi gol, in qualche modo possono essere tramandati grazie a libri specializzati e vecchie immagini, il Verdeal uomo e campione lo racconta Anna Maria, sua figlia. Genovese di nascita, genoana di ri-adozione, che del padre avrebbe forse diritto ad avere ricordi contrastati, e che invece di lui traccia un profilo ammirato. «Sì, la mia vita da bambina non è stata facile, ma da tutte le cose, anche da quelle negative, c’è sempre da imparare - resta serena Anna Maria -. Papà mi ha insegnato così, lui era così. Era nato povero in Patagonia, una terra di petrolio e di gente che viveva di petrolio. Brutta gente che anche per pochi soldi avrebbe fatto di tutto. Appena ha avuto la possibilità, mio papà è andato a Buenos Aires».
Ci è andato perché voleva arrivare, vivendo di calcio, delle sue doti. «A 11 anni giocava in prima divisione, nella squadra locale, l’Huracán Commodoro - spiega la figlia -. Credo sia rimasto l’unico caso di un bambino di 11 anni che gioca in prima divisione. È poi passato all’Estudiantes ma, appena ha potuto, è andato in Brasile. Il perché non gliel’ho mai chiesto ma sapevo la risposta: il Brasile era la patria del calcio e lui sapeva di dover fare il calciatore, era la sua vita e il suo mestiere. È andato a caccia di un ingaggio più alto, era un “conquistador” in tutto. Poi il ricco Venezuela, e infine il suo sogno di giocare in Italia che si avvera. Al Genoa». Era il 1946.
Qui la letteratura rossoblù racconta di un provino al Ferraris, con il mitico Giovanni De Prà e con mister William Garbutt, chiamati dalla società per mettere alla prova quella mezzala allora sconosciuta pescata in Sudamerica su consiglio di Gordigna e Magnifico. Il portiere simbolo del Genoa, dopo un’ora trascorsa a osservare un repertorio completo di qualunque magia, raccomandò ai dirigenti di non farsi sfuggire Verdeal. «Mio nonno era subito rimasto impressionato - ha confidato il nipote Luca De Prà nel corso della visita di Anna Maria al Signorini di Pegli -. Appena arrivato, Verdeal tirò fuori le scarpette e le ingrassò con il suo modo di fare precisino e maniacale. Sembrava un violinista che accorda il proprio strumento. Mio nonno diceva sempre che era il più forte giocatore mai visto al Genoa». E nella biografia di Garbutt firmata da Paul Edgerton, si trovano conferme sul giudizio tecnico.
Quello che aggiunge Anna Maria è un particolare magari meno romantico, ma assai più significativo per capire chi era Juan Carlos Verdeal. Il campione aveva fatto una richiesta economica ben precisa: due milioni e mezzo di lire all’anno. Valentino Mazzola, campione del Grande Torino, intascava «solo» due milioni. Non ci vuole molto ad aggiungere abbastanza zeri per parametrare quegli stipendi ai milioni di euro di oggi. «Papà non si vergognava di quelle cifre - assicura Anna Maria Verdeal -. Perché sapeva di meritarle. Era consapevole del suo talento e si allenava con scrupolo. Doveva essere il migliore, sempre, in tutto. Come a scuola, quando faceva nove chilometri a piedi ogni giorno per arrivare, ma era sempre pulito, profumato, impeccabile. E il migliore».
Professionista sempre. Anche nel Genoa, dove arrivò a 28 anni. Ma da dove se ne andò tre anni più tardi, nel 1949. Perché così presto? «Mi disse che avrebbe potuto giocare ancora due o tre anni, ma forse non si sentiva più bene come prima e non poteva accettarlo - allarga le braccia Anna Maria, nata a Genova proprio mentre il papà la lasciava per fare ancora qualche anno in Francia -. Non ricordo bene quei momenti. A cinque anni sono andata via». E qui emerge un altro aspetto del Verdeal calciatore «moderno». «Si è separato con mia mamma, lei a un certo punto gli ha detto “Adesso basta!”, perché gli piaceva sempre stare con altre donne»: Anna Maria la fa semplice come nel Dopoguerra in Italia non poteva essere. Una separazione così, improvvisa. Da una donna impegnata, che non poteva neppure seguirlo nei suoi spostamenti. «Mia mamma era figlia di una dama di corte, a Torino - ricorda la figlia -. Quando mio papà mi ha riportato in Argentina, diciamo che mi ha “rapito”, lei era proprio a Torino. È stata dura, anche perché mio papà ha ripreso a giocare e ad allenare in Sudamerica. Ma non mi sento una martire, se è per questo ho perso anche una figlia che mi è stata uccisa per rapina. Io però nelle difficoltà divento forte, a lottare mi sento bene. Anche questo è un insegnamento di papà».
E dello zio. Sì, perché la bambina, al rientro in Argentina, è stata affidata allo zio paterno, perché Juan Carlos era sempre in giro. «Un grande uomo, mio zio - assicura Anna Maria -. Non aveva figli, con me era eccezionale, devo tutto a lui. Solo, non mi dava troppa libertà. Dovevo studiare, impegnarmi, dare il massimo. La mia vita, tra i 5 e i 18 anni, era il collegio in cui vivevo. Un altro brutto momento l’ho passato a 17 anni, quando ho scoperto da mio zio che papà stava per partire e andare a Rio de Janeiro. L’ho chiamato per chiedergli perché non mi avesse avvertito e lui mi ha risposto: “Fai la valigia e partiamo insieme”. Ho rifiutato perché volevo finire la scuola e fare l’università. Ma lui era così, partiva e andava dove chiamavano il campione o l’allenatore».
Rieccolo, il professionista. Maniacale e precursore ancora una volta, è stato tra i primi commentatori tecnici in tv. Perché lui non si è aperto un negozio di articoli sportivi, come faceva la maggior parte dei calciatori che si erano messi via un bel gruzzoletto. «I soldi li aveva investiti nell’edilizia, e ci ha mantenuto la famiglia - aggiunge Anna Maria -. Ma la sua vita era il calcio. Da allenatore cercava di insegnare il calcio all’europea, all’italiana. Poi aveva un programma domenicale sulla tv argentina. E lì parlava sempre del calcio italiano, del modo di giocare, dei concetti, degli schemi. E del suo Genoa. Era il “pajaro loco” (il “Picchiarello” dei cartoni animati, ndr) per la sua insistenza nel ribadire le cose».
Ma come? Professionista, opinionista tv ante litteram, distaccato, quasi freddo, eppure genoano? Per tre anni passati qui perché lo pagavano bene? «Sì, genoano - replica sicura la figlia -. Genoano perché qui si è sentito amato, e a lui piaceva sentirsi apprezzato, importante. Ma solo se lo meritava. Genova e l’Italia sono rimasti sempre il suo sogno. Perché lui in questo non è come gli altri argentini che vivono il calcio per interesse». Parole un po’ a sorpresa, quelle di Anna Maria Verdeal. Lei della Boca. Lei passionale, costretta a non fare la tifosissima per l’educazione rigida ricevuta dalla madre. Proprio lei dice certe cose? «Gli argentini parlano di calcio solo quando vincono, il calcio è solo soldi. In Italia e al Genoa mio papà ha scoperto che c’è qualcosa di più, che c’è passione vera, che si vive per la squadra. E questo lo ha cambiato - racconta del “nuovo” Verdeal -. Dopo l’esperienza italiana è cambiato molto. Sempre professionale e serio, ma senza più eccessi. Faceva una vita ritirata. Una sola cosa lo emozionava ancora tanto: scoprire di aver lasciato un segno. Una volta in Brasile, lui ottantenne, è stato riconosciuto per strada. E poi qui a Genova, quando tornò invitato negli anni Settanta e venne festeggiato dalla Nord, provò emozioni indescrivibili, uniche. Ancor oggi, a 13 anni dalla sua morte, io sono qui a Genova e vedo quanto mio papà fosse amato. Non ho parole. Capisco perché ha chiesto di essere sepolto con la cravatta rossoblù». Un amore probabilmente già nato inconsciamente quando Juan Carlos era bambino. Dai 4 ai 7 anni, il futuro campione infatti era già venuto in Italia con il nonno. E quelli erano gli anni in cui il Genoa vinceva i suoi ultimi scudetti. Un bimbo che imparava a leggere e a capire non poteva restare indifferente al fatto che il football in Italia si traducesse con il nome del Genoa.
Anna Maria, insieme alla figlia Maria Marta, ospite degli amici Benedetta e Giorgio Massa, è stata ricevuta con tutti gli onori al Museo del Genoa («mi hanno dato la tessera della Fondazione, la metterò nell’armadio dei miei ricordi»), poi al Signorini, dove è stata protagonista tra i campioni di oggi. Primi tra tutti, i sudamericani. «Palacio un po’ assomiglia a papà - si sbilancia Anna Maria -. Professionista vero, serio, anche lui è della Boca. Lo vedo sempre giocare anche dall’Argentina. Il giorno del suo compleanno, il 5 febbraio, ho esultato per quel gol meraviglioso alla Lazio». Mica come quello di Maradona con la mano. Nella figlia di Verdeal quel ricordo riaccende lo spirito del campione, professionista ma onesto: «La mano de Dios? No! Per carità. Non è una cosa lecita - si infuria vergognandosi per quel gol rubato in mondovisione -. Lo so che gli argentini ne ridono divertiti ancora adesso. Sono gli stessi che si fanno pagare per andare ad applaudire ai comizi dei politici. È più difficile vivere con la verità, ma si vive meglio». L’argentina che rinnega Maradona, la sudamericana che si sente genovese e genoana, ha un unico rammarico. Quello di non aver ancora visto una partita al Ferraris. Una riunione di famiglia l’ha riportata oltreoceano proprio alla vigilia del match con la Fiorentina. Ma ha una voglia matta di tornare per sentire il ruggito della Nord che incita Palacio come papà Juan Carlos. E di tifare davvero, come non le era permesso fare da bambina. La figlia del campione, del professionista, la genovese d’Argentina educata al collegio, ora si sente genoana. Come papà.

«Dicevo sempre di avere il sangue viola, metà rosso e passionale di mio papà, metà blu della nobile famiglia di mia mamma - sorride Anna Maria -. In questi giorni a Genova ho incontrato una persona speciale che mi ha fatto capire che sbagliavo. Mi ha detto che ho semplicemente il sangue rossoblù».

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