GENTE DI MARE

I pescatori del levante ligure si raccontano tra le tradizioni di ieri (dure a morire) e le costose tecnologie di oggi

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Appena approda un gozzo all’ormeggio e il pescatore posa il secchio del pescato sulla banchina, puntuale arriva anche l’ironica domanda dei colleghi: «Alua se ne piggia?». La risposta non si fa attendere: «Nun ho pigiou ninte, ma ho quetou! - Non ho pescato nulla, ma ho vissuto indisturbato per alcune ore». Questa è la traduzione sostanziale della frase che si sente sui moli e le banchine del levante ligure. I pescatori sono amanti del silenzio, non parlano e, quando aprono bocca, lo fanno in modo da non far capire dove hanno calato le reti per pescare quei magnifici branzini e altre prelibatezze. Ma perché i pescatori sono restii a parlare?
«La nostra è una vita dura, si dorme quando si può, il pesce non aspetta noi, anzi, è il contrario; la pesca è divisa in stagioni e periodi, quando c’è un passaggio di una qualità di pesce bisogna essere svelti e andare nel punto giusto e fruttare l’istante - spiega Giuseppe Viacava, pescatore professionista -. Ci può essere il giorno che “quieti”, in genovese “se ne piggemmu in uetta” per dormire. Oggi lo sfotto è un po’ diminuito, ma una volta c’era invidia, però solo in banchina e in porto, invece quando si è per il mare e arriva la burrasca o una mareggiata c’è l’amicizia più sincera ci si aiuta senza pensare a nulla. Oggi giorno con la velocità delle barche e con i mezzi d’orientamento si localizzano subito i branchi di pesce e si pesca quasi a colpo sicuro.

Chi, come me, ha imparato, seguendo i consigli del padre e i metodi tradizionali, ha più rispetto per la natura; negli anni ’60 c’era un’abbondanza tale di pesce che copriva le spese della barca, oggi c’è scarsità, il costo del carburante e della manutenzione barca sono alti, bisogna pescare una buona quantità per ammortizzare le spese».

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