La geografia misteriosa di De Corcuera

Fedora Franzè

Tre tele di grandi dimensioni accolgono il visitatore della galleria romana Nextdoor in questi giorni, tre prove di pittura che a un primo sguardo sembrano austere, impenetrabili, per l’eleganza sobria delle scelte cromatiche, per l’interna coerenza di ciascuna e del percorso nel suo insieme. L’artista cileno Francisco de Corcuera espone alcune opere di recente produzione fino al prossimo 20 marzo. Un’occasione da non perdere visto che si tratta di un pittore di successo consolidato negli Stati Uniti, meno noto e raramente presente in Italia, del quale sono previste a breve due mostre personali a Santiago del Cile e a New York. Davanti a queste tele è immediato pensare a delle anomale cartine geografiche di una geografia misteriosa ma sentita intimamente. Osservandone l’andatura irregolare sembra di sorvolare la superficie terrestre o lunare, ma viene alla mente anche un’immagine più dimessa, l’aspetto dei biglietti che a volte restano nella tasca di una giacca, consumati, sbiaditi dal tempo e dagli stropicciamenti involontari. Ne risulta un carattere quotidiano e solenne insieme; si intuiscono solenni il silenzio, la concentrazione, l’attitudine meditativa che hanno preceduto la stesura finale. L’attuale pacato tracciatore di mappe, il viaggiatore che abita ai confini del deserto e guarda il mare dalla sua casa in Marocco, arriva da una lunga carriera da astrattista, nella quale si è sbizzarrito ad usare metodi e materiali vari. Oggi, proponendo una pittura di tipo sostanzialmente tradizionale, si porta dietro, anzi, fin dentro le opere, le sabbie che cambiano profilo col vento, in strati sovrapposti che lasciano intravedere i segni tracciati sul fondo.
Da un iniziale impressione di monocromo, appena movimentato da increspature e disegno discreto, avvicinandosi si arriva a scorgere la paziente tessitura di un’opera stratificata, in cui le luci e le ombre sono date per lenta progressione. Poi, ancora procedendo nella lettura, si arriva al corpo, alla fisicità del mestiere: come in un miraggio - a proposito di deserto - sembra di scorgere dell’acqua che scende sulla tela. In realtà non si tratta di gocce ma di impronte, piccoli avvallamenti ottenuti scavando con il dito sulla materia del colore, e l’occhio aggiusta il tiro: non è rilievo, è spazio concavo.
Il senso di precarietà delle parole e delle linee geometriche sfocate, degli schizzi quasi invisibili che sembra stiano per scomparire è mitigato dal contatto con questa certezza tridimensionale; d’improvviso un’idea di carta, fragile, quasi incorporea, si modifica nell’esatta percezione della realtà fisica della tela più colore, riconquista un’indubbia consistenza.
Ogni lavoro è giocato su toni smorzati e omogenei, nel rispetto di un’identità naturale che l’artista vuole esaltare nelle sue opere, grigie di pioggia o di pietra, ocra come la terra e la sabbia o nere come l’ardesia. Una delle «mappe» somiglia a una lavagna su cui siano stati cancellati nomi e figure decine di volte per lasciare spazio ai nuovi appunti, aggregati di segni organizzati con equilibrio compositivo solido.
In tutti i casi le superfici presentano le variazioni microscopiche di tratto e di spessore che le trasformano lentamente in tessuti ricamati, in un gioco di richiami e negazioni reciproche delle linee sottili.

De Corcuera deposita sulla tela in fasi successive le tracce di un pensiero incessante, dell’evoluzione perennemente in atto, del tempo che scava e aggiunge, dando a tutto questo l’aspetto di esili ipotesi architettoniche, di traiettorie astrali e terrestri.

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