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George, 102 anni, da analfabeta a Hemingway

Aveva appena compiuto 98 anni e non sapeva leggere né scrivere. Un sopravvissuto dell’analfabetismo. Certo nella vita il vecchio George Dawson, nero e nipote di schiavi, aveva fatto di tutto e se l’era cavata alla grande in ogni circostanza: aveva lavorato alla costruzione della ferrovia nel Texas, raccolto canna da zucchero e cotone nelle piantagioni dei bianchi, domato cavalli selvaggi, giocato a baseball da professionista, messo al mondo sette figli da due mogli diverse. E visto morire amici fraterni impiccati agli alberi dall’odio degli incappucciati del Ku Klux Klan. Ma se c’era da leggere e pagare le bollette niente da fare, a quello doveva pensare la moglie di turno. E se c’era da firmare, il suo nome diventava una «X».
Fino a quando, siamo nel 1996, non fu tirato dentro l’impossibile da una scuola elementare di Dallas. E a quasi cent’anni di età gli venne improvvisamente fretta. In un paio di giorni imparò a riconoscere le lettere, poi non ci mise molto a metterle insieme. Il maestro Richard Glaubman intravide chissà come qualche cosa nel futuro di quell’uomo del passato. Gli buttò lì: perché non scrivi un romanzo, un secolo di vita americana vissuta, solo tu lo puoi fare.
E così a 102 anni più che suonati George Dawson si è visto pubblicare il suo Life is so good, La vita è così bella. Nemmeno pensava che sarebbe diventato un best seller e lui una celebrità, un simbolo e un esempio. Non c’è talk show che non l’abbia avuto come ospite, non c’è americano che non si sia commosso alla sua storia. Ha ricevuto, pensa te, anche un paio di lauree honoris causa, «ma solo perché ho dimostrato che non è mai troppo tardi per studiare». A 103 anni, l’ex analfabeta diventato Hemingway se ne è andato. Gli è stata fatale una banale caduta e le sue complicazioni. Raccontava: «Tenevo segreto il fatto di non saper leggere. Ogni volta che mi capitava di viaggiare, non potevo permettermi di dimenticarmi le indicazioni che mi davano i passanti». Per quasi un secolo il suo nome è stato una «X».

Ma poi: «Scrivere George Dawson è stata l’emozione più forte della mia vita».

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