George Benson, quando il jazz si colora di funk

Il chitarrista che suonò con Miles Davis, mercoledì in Italia, da anni è una star delle classifiche "leggere"

George Benson, quando il jazz si colora di funk

«Miles Davis m’ha insegnato che il jazz si evolve fondendo l’improvvisazione, il rock e il pop sofisticato. Questo suono è il mio credo, ma non tradirò mai le radici». George Benson spiega così i suoi dischi milionari (più vicini al funk e alla pop dance che al jazz), ai puristi che lo accusano di aver abbandonato una carriera alla Charlie Christian (anche se l’idolo di Benson è Wes Montgomery) per il canto e l’entertainment. Benson risponde con le cifre, ma soprattutto con i coloriti ritmi di album ipercoccolati dalle radio e dominatori delle hit parade come Breezin’, 20/20, While the City Sleep. «Il jazz mi ha dato la tecnica, ma non avrei mai potuto fossilizzarmi ripetendo sempre gli stessi schemi. Nella cosiddetta fusion c’è una grande fantasia armonica, c’è un ritmo forsennato e bisogna stare in perfetto equilibrio tra melodia e improvvisazione». Camaleontico, spettacolare, virtuoso, straripante (incredibili i suoi assolo sulle note acute e il suo modo di rincorrere con la voce gli assolo della chitarra) George Benson a 67 anni è una star dei suoni trasversali, un artista che attira il grande pubblico, come dimostra l’attesa per il suo concerto, che dopodomani apre nel Castello di Fénis, in Valle d’Aosta, «Musicastelle in Blue», festival organizzato dal Blue Note di Milano che il 2 agosto vedrà di scena il glorioso pianista McCoy Tyner con ospite il sax di Joe Lovano.

Serata tradizionale con Tyner, notte brillante di «funkness», di commistioni bianche e nere con Benson. «La mia sarà anche musica commerciale ma mai banale; sono stato il primo chitarrista a suonare con Davis e da lì ho capito come far uscire certa musica dai ghetti neri per portarla nelle strade. A guidarmi su questa nuova strada è stato Quincy Jones, uno degli arrangiatori e band leader più illuminati della storia. Grazie a Dio nel mio background c’è di tutto. Ho suonato rhythm’n’blues con Jack McDuff e Jimmy Smith, ho lavorato con Dexter Gordon e Freddie Hubbard, mi sono cimentato nel blues con un maestro come Buddy Guy, ho suonato persino lo swing col mitico Benny Goodman. È chiaro che tutte queste esperienze mi son rimaste dentro, e tornano in circolo al meglio in dischi come Breezin’ che contiene brani cui sono affezionatissimo come This Masquerade». Altrettanto chiaro che lui abbia l’anima dell’istrione e che ci abbia preso gusto al successo da star di Breezin’ (quasi cinque milioni di copie vendute e tre Grammy, cifre impensabili per un jazzman): «Sono un po’ istrione e un po’ artista di strada, visto che ho cominciato a suonare l’hukulele a 7 anni, gironzolando attorno ai night dove suonavano il jazz perché ero troppo piccolo per entrare. Avere successo non vuol dire svendersi né cercare strade facili, anzi significa dettare una linea, come fece Wes Montgomery e come sta facendo ora Kenny Burrell. Oppure maestri dell’acustica come Paco De Lucia e Tomatito; tutti questi sono veri artisti nel senso che hanno qualcosa da dire e sanno rompere gli schemi e le barriere stilistiche.

Ai miei concerti ci sono tanti giovani ma anche tanti vecchi appassionati. E a chi dice che sono troppo commerciale risponderò presto, con un album tributo a Nat King Cole insieme a quattro orchestre e un album concept che stupirà i fan del jazz».

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