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Il George W. africano che vuol liberare la Liberia

L’ex Pallone d’Oro di calcio è il favorito alle presidenziali di martedì: «Vincerò fame e guerra»

Non si può essere bambini in Liberia, lo capisci subito anche se sei piccolo e vivi con la nonna in una baracca di lamiere vicina alle paludi del porto. Senza luce, senza acqua, senza speranza. Ricco solo di fratelli, tredici fratelli. E questo se sei un bambino fortunato. Perché se sei l’ultimo, l’ultimo in fondo a un’aula che non c’è, il destino ti può mettere nelle manine un kalashnikov, farti diventare un bambino soldato, che spara a gente che potrebbe essere il tuo papà. O un bambino come te. In Liberia cinque bambini su dieci non sanno leggere e scrivere e otto di quei dieci un lavoro vero da grandi non l’avranno mai. Sempre che diventi grande perché qui se ti va bene campi fino a 40 anni. Hai solo una via di fuga. Aggrapparti a un pallone e volare via. Tirargli un calcio, più forte che puoi, e sperare che ti porti il più lontano possibile.
George Weah guarda il pallone arrivare dal cielo, lo stoppa di destro, lo mette giù morbido perché ci vede il bambino che era trent’anni fa quando tirò quel calcio che lo ha fatto volare così lontano da riportarlo qui: futuro presidente, forse, della sua Liberia, si vota tra due giorni, 22 candidati in corsa, due squadre di calcio, con un solo campione. Ma le cose sono cambiate da quando viveva con la nonna. Sono cambiate in peggio.
Gioca in casa dove è più pericoloso vincere. In Liberia non si sa neanche quanti siano i vivi, tre milioni o quattro, né i morti, uccisi da quattordici anni di guerra civile. Ci sono, quello è sicuro, 800mila profughi e venticinquemila caschi blu che tengono in ordine il Paese, perché qui non c’è né esercito, né polizia. George Dabliù aveva mille ragioni per tirarsi indietro: un’altra vita in Florida, fama da spendere, soldi a palate, un’esistenza da vagabondo di lusso. Ma non ne ha cercata nemmeno una. Anche da calciatore era così: ha sempre cercato la soluzione più difficile, ha sempre tenuto la testa alta. Il Weah che pregava Dio a mani aperte al centro del campo e poi passeggiava nudo negli spot dei deodoranti, che cantava i rap e sollevava al cielo, unico africano, il Pallone d’Oro, ha dribblato sempre tutti ma non è riuscito mai a sfuggire al dolore della sua gente. Ha pagato di tasca sua borse di studio per studenti, ha spedito sacchi di riso alla suo popolo, ha raggiunto le basi dei ribelli per convincerli a deporre i fucili in cambio di palloni. Lo hanno minacciato di morte, gli hanno bruciato la casa, violentato due cugine, lui che si faceva timido davanti a Van Basten adesso non ha paura di guardare negli occhi il generale Charles Taylor, il dittatore deposto, condannato per crimini contro l’umanità, che dall’esilio in Nigeria cerca ancora di imporre la sua legge. Anche per questo i liberiani lo considerano un dio: metà di loro ha meno di trent’anni, più di un quarto arriva appena a 23, George li ha sempre fatti sognare, ora li fa anche sperare. È la Liberia che tutti vorrebbero essere: ricca, famosa, buona.
Il suo è un programma semplice, in fondo poche cose, perché questo è un paese che non c’è, bisogna ripartire, direbbe il suo allenatore, dai fondamentali. Punto primo: «Dobbiamo unificare la Liberia divisa da lotte intestine tra fazioni e guerriglieri: è ora che da noi ritorni finalmente la pace». Punto secondo: «In tutte le città e i villaggi mancano l’acqua e l’elettricità: e la fame va sconfitta ovunque». Punto terzo: «I bambini soldato devono riporre i fucili e tornare a scuola». Dice: «Che presidente vogliono i liberiani? Uno di cui fidarsi...». E agli avversari: «Continuano a dire che non so leggere e scrivere che non so parlare, che non ho esperienza politica. E loro? Con tutta la loro esperienza hanno governato questo Paese per cento anni senza creare niente, se non guerra e violenze».
In un Paese che per resuscitare ha bisogno di un dio Vote George Weah vuol dire votare un po’ per se stessi. «Senza calcio sarei diventato anch’io un bambino soldato» sorride un po’ triste. Con George W.

forse si potrà provare ad essere bambini e basta.

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