Gerda Taro, la Pasionaria che fotografava la Storia

Una biografia sulla compagna di Bob Capa uccisa nel ’37, «promossa» martire della causa comunista e poi dimenticata

Il giorno in cui Gerda Taro morì, schiacciata dai cingolati di un tank durante la ritirata di Brunete, Willy Brandt - allora capo dell’Ufficio di collegamento del Partito socialista operaio tedesco in Spagna - parlò di assassinio politico: solo che i killer non erano i fascisti di Franco, ma i comunisti di Stalin... Che un classico incidente di guerra potesse dar vita a una simile supposizione, la dice lunga sul clima di sospetto che in quel tragico 1937 si era insediato tra i combattenti della Spagna repubblicana. Erano già stati fatti fuori gli anarchici, c’era già il repulisti nei confronti dei socialisti non allineati alle direttive di Mosca, e Gerda Taro, simpatizzante dei primi e amica dei secondi, poteva essere legittimamente considerata un «nemico oggettivo» della terza. Gli imponenti funerali che di lì a pochi giorni si celebrarono a Parigi con la regia del Partito comunista francese, orazione funebre di Aragon, saluto della massa operaia, inumazione nel Pantheon laico del cimitero del Père-Lachaise, possono in fondo essere letti anche in un’ottica, per usare un linguaggio dell’epoca, «giustificazionista»: il Partito con la maiuscola rigettava sprezzantemente qualsiasi calunnia anarco-socialfascista fatta circolare ad arte, certificava che la morta era stata una fedele compagna, ribadiva che in quella guerra gli eroi della causa erano solo quelli che stavano al suo fianco.
L’eroina in questione aveva appena 27 anni, faceva la fotografa da un anno, era la fidanzata del più giovane Robert Capa, il più promettente fotografo di guerra dell’epoca e, negli anni a seguire, il più famoso. L’uso politico di quella morte e il legame sentimentale di quella vita operarono sulla memoria postuma di Gerda Taro una sorta di corto circuito: ebrea polacca nata in Germania, nel dopoguerra fu trasformata nell’Est Europa in una militante impegnata, mentre all’Ovest fu derubricata a semplice amante dell’ormai famoso compagno: in entrambi i casi, se e quanto fosse una fotografa d’eccezione rimase ai margini. Nella mitologia del socialismo reale era ininfluente rispetto al suo status di martire, nella mitologia dell’Occidente liberale era ingombrante rispetto a chi, già nel nome, incarnava il prototipo americano virile della Seconda guerra mondiale vinta dagli Usa e non dall’Urss.
Così, soltanto quarant’anni dopo, alla rassegna Spagna 1936-39 della Biennale di Venezia, si ritornerà a parlare di Gerda Taro in quanto fotografa e solo per il prossimo 2007, in occasione dei settant’anni dalla morte e sull’onda della biografia appena uscita di Irme Schaber, Gerda Taro. Une photographe révolutionnaire dans la guerre d’Espagne (Editions du Rocher, pagg. 315, euro 20), è prevista una mostra fotografica itinerante - New York, Londra, Parigi - destinata a celebrarla.
Ironia del caso, se la rimozione dello status professionale della Taro avvenne negli anni successivi alla sua morte, quella della sua identità razziale si verificò invece proprio in occasione di quest’ultima. Gerda era ebrea, si chiamava Gerta Pohorylle, era nata il primo agosto 1910 a Stoccarda, figlia di commercianti, aveva vissuto la giovinezza a Lipsia, era fuggita dalla Germania nel ’33, aveva insomma tutte le carte in regola per potere essere ricordata non solo come martire, ma anche come vittima. Solo che nel clima convulso della guerra di Spagna e nella logica con cui il Partito comunista francese aveva deciso le onoranze funebri, era la «combattente della causa» e «la figlia di Parigi» che doveva avere il posto d’onore. Il suo antifascismo, insomma, non doveva essere fatto risalire a uno stato di necessità, la persecuzione razziale come presa di coscienza politica, ma a una scelta innata e/o razionale, e l’elemento glamour di una ragazza bella, elegante e indipendente alle prese con un mestiere rischioso per conto di un quotidiano parigino della gauche, stonava con l’immagine della profuga in terra straniera. Con la cortina di ferro e la nascita della Repubblica democratica tedesca, la «figlia di Parigi» si trasformò nella «figlia di Lipsia», emblema della giovinezza tedesca, rivoluzionaria e socialista, ma anche qui l’elemento razziale fu lasciato disinvoltamente cadere.
Per quanto dovuta a calcoli politico-ideologici questa seconda rimozione conteneva comunque degli elementi di verità. Fino all’avvento del nazionalsocialismo la vita di Gerta era stata quella di una ragazza più impegnata a sentirsi tedesca che non a rivendicare le proprie radici. Ben educata e cresciuta in un ambiente economicamente confortevole, il suo era stato l’orizzonte medio-borghese tipico della sua età: feste, vestiti, fidanzati, indipendenza. Oltretutto, nulla nei suoi lineamenti la discostava dal prototipo della bellezza tedesca e non è senza bonaria ironia che a Parigi qualche amico la definirà «l’ariana ebrea». Nel legame sentimental-professionale con Robert Capa, di cui Gerda fu per molti versi una sorta di Pigmalione al femminile, inventando per lui lo pseudonimo che lo renderà famoso, rivedendone il look, favorendone i contatti grazie a una conoscenza delle lingue, a una testa per gli affari e a un maggior uso di mondo («il capo» la soprannominerà lui con affetto; «la puttana», la definirà Hemingway che di Capa in Spagna era diventato amico...) gli elementi individualistici del suo carattere, il desiderio di riuscire, la voglia di emergere e godersi la vita, erano molto più forti di quei connotati ideologico-politici che ne faranno post mortem un simbolo.
Naturalmente, Gerda Taro fu al tempo della guerra di Spagna una fotografa impegnata e non una semplice professionista dell’immagine. Nel rappresentarla ci mise il pathos di chi riteneva di stare dalla parte giusta, ma è difficile sapere quanto e come quell’impegno si sarebbe radicato e/o modificato nel tempo e quanto, anche, nell’eccitazione del momento, l’elemento avventuroso, il ritrovarsi per la prima volta protagonista di un’esperienza, il piacere di vedersi apprezzata non sublimassero una simpatia politica reale ma superficiale. Le illazioni di Willy Brandt non hanno ragion d’essere proprio perché, al di là di amicizie e conoscenze personali, la Taro si guardò bene dal farsi guidare nella sua esperienza spagnola dal deleterio frazionismo del fronte repubblicano, consapevole che il settore militare guidato dai comunisti era il campo migliore dove poter esercitare al meglio il proprio lavoro. E, del resto, già nel ’37, sia lei sia Capa pensavano a un altro scenario bellico dove recarsi, il nord della Cina invaso dai giapponesi, segno evidente che era la professione il centro dell’interesse di entrambi.
Il fatto di avere, a lungo, firmato in coppia come «Capa&Taro», di essere stati, come dire, interscambiabili e in più la prima allieva del secondo e il secondo una sorta di suo erede testamentario, hanno finito con il nuocere più che giovare alla sua fama postuma. Ancora un anno dopo la morte, Capa pubblicò le foto di entrambi e una mostra a New York riunì un totale di 200 scatti, con copyright comune e individuale. Ma, intanto, dopo la guerra cino-giapponese, Capa era ormai entrato nella leggenda dei fotoreporter e dal punto di vista pubblicitario e della immagine il nome Taro era più un’appendice o un peso che non un valore aggiunto: la superficialità, la disattenzione, la mancanza di chiarezza fecero il resto e lentamente la fotografa venne ridotta a compagna, poi ad amante, poi a una delle amanti...
Un peccato, perché la Taro aveva assimilato le lezioni del suo maestro, per poi raggiungere una propria maturità artistica.

La biografia della Schabner ne dà iconograficamente purtroppo solo una pallida eco, sacrificata com’è nelle dimensioni di un normale libro di saggistica, ma sufficiente per farci rendere conto che si è di fronte a un’artista dell’immagine di tutto rispetto. Sotto questo proflo la retrospettiva del prossimo anno sarà da non perdere, omaggio doveroso a una ragazza bella, intelligente, dimenticata.

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