Gerusalemme come Gulliver

Trent’anni fa, con una spericolata azione condotta a migliaia di chilometri dal territorio nazionale, Israele liberava a Entebbe, in Uganda, gli ostaggi che terroristi palestinesi affiliati all’Olp avevano catturato, dirottando verso quel Paese africano un aereo dell’Air France. Fu un momento di grande entusiasmo in e per Israele. Ma la differenza con la crisi aperta dal rapimento del soldato Gilad Shalit è enorme. Nel 1976 Israele era ancora in guerra coi suoi vicini arabi. Nonostante l’occupazione dei territori palestinesi, egiziani e siriani non si sentiva minacciato sul suolo nazionale. Oggi, in pace con l’Egitto e la Giordania, senza scontri di frontiera con la Siria e solo qualche scaramuccia col Libano, la violenta reazione alla cattura di un soldato rivela quanto lo Stato ebraico si senta vulnerabile davanti alla minaccia palestinese, quanto appaia impotente a piegare ciò che resta del governo palestinese e a colpire i burattinai di questo stesso governo che operano da Damasco e da Teheran.
Allora si trattava di colpire un bersaglio tecnicamente difficile da raggiungere, ma chiaramente identificato e militarmente debole. Oggi Israele non sa neppure dove i rapitori di Gilad tengano prigioniero il soldato. Allora si ebbe l’impressione che il governo dello Stato ebraico, ancora sotto choc per la guerra del Kippur, sapesse come agire contro il nemico in base a una strategia chiara e una tattica ben rodata. Oggi in Israele si ha l’impressione che la sua potente artiglieria quando spara contro i ministeri di Hamas cerchi di colpire inafferrabili mosche. Allora c’era un’Unione Sovietica ostile, sostenitrice dell’Egitto e della Siria. Oggi c’è una Russia in ottimi rapporti con Israele, sempre legata alla Siria, a cui si è rivolto il ministro degli Esteri di Gerusalemme per trovare una via d’uscita alla crisi. Lo stesso fa l’Egitto - con l’aggiunta di un appello all’Arabia Saudita -, rendendosi conto di non essere più il mediatore preferito dei palestinesi. Il presidente Mubarak è interessato a mettere fine alla crisi, non tanto per il suo amore per la pace, quanto per il timore che i gruppi terroristici palestinesi trasformino Gaza in una base d’azione contro l’Egitto.
L’ultimatum dei carcerieri di Gilad è scaduto ieri ed essi si sono affrettati a garantire l’incolumità del soldato, rendendosi conto che ammazzandolo non solo perderebbero l’unica carta di scambio di prigionieri che posseggono, ma anche la battaglia psicologica che sinora hanno condotto con successo contro Israele. Ma il rifiuto di Gerusalemme (per quanto il governo sia disposto a trattare uno scambio di prigionieri) è stato secco e netto. Israele sa che cedendo in questo momento ai terroristi aprirebbe la strada a sempre maggiori ricatti e finirebbe col distruggere quel poco di autorità che resta al presidente palestinese Abu Mazen, il quale chiede la restituzione del prigioniero, rendendosi conto quale disastro rappresenterebbe per lui, per il suo governo e per la popolazione palestinese un ritorno in forza di Israele a Gaza. Ritorno che anche Gerusalemme vorrebbe evitare, rendendosi conto delle conseguenze politiche che comporterebbe. Si ha così l’impressione che Israele si trovi nella situazione di un Gulliver incatenato e i palestinesi coscienti del prezzo che dovranno pagare se questo Gulliver rompe le catene.

Una volta di più il Medio Oriente rischia di essere incendiato da un fiammifero. Che, purtroppo, è rappresentato da un ragazzo di 19 anni il cui padre supplica il governo di non fare della liberazione del figlio una dimostrazione della sua potenza militare.

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