Roma«Sei milioni di italiani guardano il Grande Fratello. Sono tutti coglioni?», sbotta Luigi, per gli amici Gigio, mentre il padre Alberto, professore di Lettere, lo incalza in camera sua, dicendogli che «il soldo va guadagnato, ma non scaccolandosi in diretta». È la scena-chiave di Genitori&figli - Agitare bene prima dell’uso (da venerdì nelle sale), l’ultimo film di Giovanni Veronesi, dove il diciottenne Gigio (alias Andrea Fachinetti, figlio esordiente di Ornella Muti) è, al tempo stesso, universitario animalista, che nuota con le orche (quindi bravo) e aspirante al cast del GF, in coda con altri disoccupati come lui (quindi idiota). Cosa «umiliantina», quest’ultima, per la solita madre nevrotica (Margherita Buy, con dizione alla Concita De Gregorio), che non dice mai pane al pane e vino al vino, ma esita sempre. A parlar chiaro pensa il solito padre forte, simpatico, meridionale vecchia guardia, che ormai coincide con la figura di Michele Placido. Il quale, ruvidamente, dal canto suo osserva che non si può frequentare il primo anno di università e «mettersi in fila per un provino del cazzo».
Due punti di vista diametralmente opposti per guardare al mondo e alle sue cose sono tra noi, manda a dire, in sostanza quest’ennesima commedia sulla famiglia italiana, che funziona o no, a partire dalla scelta dei contenuti televisivi. I genitori sugli anta e oltre detestano il GF, summa d’ogni male possibile. I figli hanno un altro mondo: adorano chi ha «l’X-Factor nel sangue» e per loro è normale cercarsi i soldi via reality (quant’è crudelmente spassoso il risentimento di papà Placido, indignato perché il figlio lo disprezza, sputando sul suo stipendio da statale, «quattro milioni del vecchio conio», nota l’attempato e gli s’incrina la voce). E conta non poco, la faccenda del cosa comunicare a chi, se la scena-madre di cui sopra viene mandata in onda, come trailer del film, su Sky in versione integrale («coglioni» inclusi) e sulle reti Rai in versione domestica, con un blando «deficienti» al posto della parolaccia. Chi paga la sua televisione, insomma, ha diritto al live che fa sangue, mentre mamma Rai mette la sordina alla sceneggiatura di Veronesi, Ugo Chiti e Andrea Agnello (di quest’ultimo, Mondadori pubblica l’omonimo libro dal film). Magari si tratta di non usare il turpiloquio negli orari non protetti. O forse è di nuovo la legge binaria, che vuole una tv al plasma, possibilmente pay, per papà e mamma, in salotto, e uno scassoncello, più o meno con decoder, in quei bunker, detti camerette-dei-ragazzi (poi, loro accendono il computer).
Incredibile, ma vero, stavolta Veronesi, il comunista toscano, che abita ai Parioli, riconosce come le famiglie allargate, con le quali, da sinistra, ci hanno fatto una capa tanta per decenni, siano «una sciocchezza del nostro tempo, un espediente per vivere in pace con i propri errori, ma non esistono davvero». Step family? 'Ntu culo, direbbe Albanese. Ma è il regista di Manuale d’amore, che a cinquant’anni si sente «liso». La perdita dei genitori ottantenni (ai quali dedica il film) ha avuto valore di soglia e l’ha fatto riflettere sul senso profondo di famiglia. «Mio padre e mia madre sono morti a pochi mesi di distanza. Mio padre, ingegnere, aveva lasciato disposizioni, per disperdere le sue ceneri in mare. Io e mio fratello eravamo sul canotto, a un certo punto mio nipote s’è buttato in acqua e nuotava felice, mentre le ceneri zampillavano, argentee, in superficie. Ci siamo tuffati pure noi: è stato liberatorio.
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