Il ghetto di Roma non è stato un’isola felice

Signor Granzotto, rispondendo mirabilmente al sig. Gigi Rosati, che si dimostrava così indignato nei confronti della Chiesa cattolica, ha stranamente trascurato l’altro luogo comune che il medesimo mostrava di considerare come oro colato: gli ebrei del ghetto di Roma erano davvero trattati dai predecessori di Benedetto XVI così male come ritiene il sig. Rosati? A me risulta che all’ombra del cupolone si rifugiassero anche ebrei che venivano espulsi da altri territori europei. E se qualche Papa aveva perfino scelto degli ebrei per medici personali, i rapporti non dovevano essere così pessimi. O mi sbaglio?
Chieri

No, caro Mignozzetti, pessimi no, spesso anche molto buoni, ma nel dare e avere fra la Roma del Papa Re e la comunità ebraica, a ballare è sempre la questione del ghetto, la cui istituzione non è che si possa considerare un gesto di cortesia. Certo, Roma (e in genere il Meridione) accolse molti dei sefarditi che cacciati nel 1492 dalla Spagna si erano rifugiati in Portogallo da dove cinque anni dopo furono espulsi da Re Manuel. Certo, Roma poteva contare su una delle più radicate comunità ebraiche, presente stabilmente nella città da duemila anni e che poté godere almeno fino alla metà del Cinquecento dei così detti pari diritti. Le cose presero un’altra piega sotto il pontificato di Paolo IV Carafa, il Papa che diede forte impulso all’Inquisizione, che istituì l’Indice dei libri proibiti (i romani non l’amarono: «Carafa in odio al diavolo e al cielo è qui sepolto - ruinò la chiesa e il popolo, uomini e cielo offese», recitava una pasquinata) e che richiamandosi ad una fino ad allora trascurata disposizione del Concilio Laterano del 1179 delimitò uno spazio separato e cintato - il ghetto - entro il quale gli ebrei dovevano risiedere. Vi finì una comunità composta da modesti mercanti di generi usati, da artigiani e piccoli bottegai, ma anche da altrettanto piccoli imprenditori, studiosi, medici e qualche uomo d’affari a metà fra il banchiere e l’agente di cambio. Le ultime due professioni molto apprezzate anche Oltretevere: come lei ricorda, caro Mingozzetti, diversi medici varcarono la soglia dei Sacri palazzi e Pio VII non ci pensò due volte a batter cassa alla maison Rothschild (l’«abbreo Roncilli», per Giuseppe Gioacchino Belli: «Ma eh? Gessummarìa! che monno tristo!/ Fin che lo vedi fa’ a li ggiacubbini va be’,/ ma un Papa ha da pijà quadrini da un omo ch’a ammazzato Gesucristo?». Concludendone poi, riferendosi all’esoso interesse richiesto dal banchiere: «Perantro è un gran miracolo de Dio/ l’aver toccato er core d’un giudio/ che l’ha ajutato ar sessant’un per cento»).
Ci furono anche degli eccessi, basti pensare ai casi di battesimi coatti, ma nell’alternarsi della tolleranza e del rigore - alternanza per altro non limitata ai rapporti con la comunità ebraica, ma che coinvolse ogni aspetto della vita dei cittadini dello Stato pontificio - si deve ammettere che gli ebrei non ebbero a patire tormenti o vessazioni. Gli esempi di buon vicinato venivano anche dall’alto, come è il caso di Pio VII che strinse amicizia col rabbino capo di Roma e col quale spesso s’intratteneva. Ce lo ricorda il Belli, che cito nuovamente perché fu uno straordinario testimone e interprete dei suoi tempi: «È ito in paradiso oggi er Rabbino, che ssarìa com’er Vescovo der Ghetto (...) Era amico del Papa (...) Dunque a la morte sua Nostro Siggnore cià pianto a ggocce», ovvero a calde lacrime.

Testimonianza di un affetto e di una stima reciproca che fa dire al Belli: «Si campava un po’ ppiù, te lo dich’io,/ o noi vedemio er Rabbino cristiano, /o er Papa annava a terminà ggiudio». Magari non sarebbe finita così, tuttavia il clima era quello. Restano però sempre quei tre secoli di ghetto: quanto basta - e per qualcuno avanza - a non far quadrare i conti.

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