Ghizzoni archivia l’era Profumo «One man show»

Prima di riporre la divisa di Bankitalia per indossare quella della Bce, il governatore Mario Draghi ha consegnato le pagelle di fine anno alle banche italiane. Il «gran maestro» di Via Nazionale ha chiesto di dotare l’Authority dei poteri necessari per rimuovere i manager scorretti e ha bacchettato il mondo delle Popolari, insistendo sulla necessità di una riforma legislativa. L’eco della battaglia con cui la Vigilanza si è imposta sulla governance di Bipiemme è evidente, ma l’esito dello «scrutinio» è comunque molto positivo per il settore bancario nel suo complesso. Soprattutto per quanto riguarda la «pronta risposta» degli istituti di credito e dei loro grandi azionisti, Fondazioni in testa, all’invito ad aumentare il capitale rinnovato con vigore dallo stesso Draghi al Forex di fine febbraio.
«Tra ottobre del 2010 e aprile di quest’anno», ha ricordato il banchiere centrale al gotha della finanza accorso a Palazzo Koch per le sue ultime Considerazioni finali, «sono stati varati aumenti di capitale per oltre 11 miliardi. Gran parte delle operazioni si concluderà entro l’autunno», consentendo alle banche di avvicinarsi all’obiettivo previsto da Basilea 3 per il 2019. Malgrado i timori di alcuni, le ricapitalizzazioni non si tradurranno inoltre in un freno al pil o in un aumento dei costi ai clienti, ma al contrario favoriranno l’economia italiana. Poi un riconoscimento alle Fondazioni, la cui indipendenza «è essenziale per l’autonomia degli istituti di credito», e alla buona condotta dell’industria bancaria, che ha «aumentato i finanziamenti alle imprese (+5,2% nel trimestre 2011), rallentato i flussi di sofferenze e concesso ristrutturazioni dei debiti alle aziende; anche se questo non deve «essere un modo per rinviare l’emersione di perdite nei bilanci». In sintesi, in Italia non c’è stata una crisi bancaria, ha rimarcato Draghi, le cui parole sono state accolte con soddisfazione sia dal presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, sia dal capo dell’Acri, Giuseppe Guzzetti.
Per avere una buona Vigilanza non basta però che le regole siano adeguate, ha avvertito Draghi, servono invece «forti prassi operative» e «un’azione serrata ed efficace», senza le quali «le crisi non si evitano». La Vigilanza in Italia ha «una tradizione salda», che «non si è mai convinta del tocco leggero» ed è sempre stata pronta «a persuadere se possibile e a prescrivere se necessario». Più in generale deve essere evitato l’errore di considerare le banche sistemiche (Sifi), «troppo grandi per essere lasciate fallire», perché questo rappresenta una distorsione della concorrenza ai danni della collettività. Occorre, inoltre, riformare le regole secondo due direttrici: potenziare le armi contro la crisi e, appunto, concedere alla Vigilanza il potere di allontanare i banchieri «responsabili di condotte nocive alla sana e prudente gestione».
Un evidente richiamo alla qualità della governance, che Draghi ha ricordato essere fondamentale anche per incentivare gli investitori a fornire mezzi freschi. Da qui la stoccata al fianco delle Popolari quotate, per le quali occorrono «regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori e un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea», magari con una diversa politica delle deleghe. In altri termini meno autoreferenzialità sia al vertice e nei rapporti con le parti correlate, sia dei dipendenti-soci. Ecco perché «le modifiche statutarie non possono essere risolutive» ma serve un intervento legislativo.
Piccata la difesa di Giovanni De Censi: «Più apertura di così non si può» sulle deleghe, ha osservato il presidente dell’Istituto centrale delle banche popolari.

«Noi siamo tranquilli, abbiamo fatto un’autoregolamentazione chiara»; le popolari quotate hanno «fatto tutto quello che è richiesto», ha proseguito De Censi lasciando intendere come il richiamo di Draghi fosse rivolto a qualche istituto che l’autoriforma «non l’ha compiutamente fatta».

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