Giallo della lista: firmano per Fini anche se non andranno con Fini

RomaPer lui ma non con lui. Praticamente un Fini-mondo. La lista dei presunti cinquanta pretoriani che il presidente della Camera ha incontrato martedì nella sala Tatarella di Montecitorio resta avvolta nel mistero. Quanti sono? Ma soprattutto: chi sono? Alla prima domanda molti, anche qualche ex aennino, alzano il sopracciglio: ma saranno davvero 50? In effetti se Fini ha voluto andare alla conta in una prova di forza che numericamente non lo avrebbe visto isolato, perché non rendere pubblici i nomi della sua truppa? I benevoli sostengono che non lo abbia fatto per non esporli al gioco dei buoni e i cattivi. I maligni pensano invece che i gatti, se non quattro, siano in realtà pochi di più e non certo un mezzo centinaio. Di fatto, Fini ha raggruppato attorno a sé ex aennini giocando al ribasso, facendo loro firmare un ordine del giorno ipersoft, sottoscrivibile persino dai berluscones più accesi. Un documento di generica e blanda «solidarietà» capace di coprire la macedonia delle tante sensibilità diverse all’interno dei «suoi».
Una milizia divisa, un esercito dove i «con te senza se e senza ma» alla fine è ridotto ai soliti noti soldati. Sono i cosiddetti «falchi», i più finiani di Fini, i pasdaran del pollice verso, della minestra sciapa, gli spazientiti del berlusconismo, i tifosi del correntismo. In questa schiera si annoverano i Bocchino, gli Urso, i Briguglio, le Perina, i Granata, i Barbareschi, i Tremaglia, i Raisi. Sono i fautori dell’agguato, della guerriglia, del «facciamo impazzire Berlusconi, chiediamo la direzione ogni mese, su ogni problema possiamo frastagliare il partito, come avvenuto sulla caccia». Sono gli oltranzisti: più che corrente, zoccolo duro o, meglio, riserva indiana.
Accanto a questi, la maggioranza, rinnova stima e amicizia a Gianfranco ma lo mettono in guardia sulle fughe in avanti. Sono le «colombe», i pidiellini, i pontieri, i pacificatori che sebbene condividano che «qualcosa nel partito non va», tremano all’idea che lo stillicidio quotidiano contro maggioranza e governo alla fine possa spaccare tutto. Tra questi anche finiani doc come il ministro Andrea Ronchi, il sottosegretario Roberto Menia, l’onorevole Amedeo Laboccetta, e molti deputati di area alemanniana come Aldo Di Biagio. E se perfino un orgoglioso ex missino come Menia, uno dei pochi che circa un anno fa aveva storto il naso per la fusione con il Pdl, giudica «dannose» certe prese di posizioni che potrebbero spaccare il partito, è tutto dire. Come lui la pensano in tanti.
Sono quelli che, come tutti i 14 firmatari senatori dell’altro ieri, già a dicembre avevano respinto e giudicato come «incomprensibile» qualsiasi ipotesi di strappo. Pur convinti che nel Pdl ci sia poca democrazia interna e troppa sudditanza nei confronti della Lega, è la milizia che per Gianfranco sarebbe disposta a sparare ma soltanto «a salve» o «a solidarietà». Non un colpo in più.

Niente corrente, niente scissione, niente battaglie al di fuori del Pdl per i guerrieri che hanno indossato la divisa del finismo ma senza armi. In uniforme ma senza schioppo per un’armata che Fini non comanda. Specie se dovesse suonare la carica dell’addio a Berlusconi.

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