Il giallo di Perugia? Una congiura contro neri e terroni

Dichiarazione di Patrick Lumumba subito dopo la scarcerazione: «Dietro il mio arresto c’è il razzismo». Dichiarazione di Raffaele Sollecito, tuttora detenuto: «Mi hanno coinvolto perché sono un terrone». Ora manca solo che Amanda dica che il magistrato che l’ha ingabbiata è un estremista che ha in odio gli yankees, e il quadro è completo.
I protagonisti della vicenda di Perugia saranno anche dei ragazzotti un po’ naif, dei pasticcioni, ma hanno capito alla perfezione che oggi in Italia poche strategie difensive sono più efficaci di questa: dirsi vittime dell’odio nei confronti dello straniero. Del «diverso». C’è sempre qualche opinionista che scriverà indignato contro la xenofobia dilagante, e qualche parlamentare pronto a presentare un’interrogazione.
Anche se in realtà in galera si può finire per due motivi molto più semplici: perché si commettono dei reati oppure - se si è innocenti - perché il magistrato ha sbagliato o è stato ingannato dagli indizi che aveva a disposizione. Nel caso di Lumumba, ad esempio, pare proprio che si sia trattato di un errore. Il congolese è quasi sicuramente innocente, eppure è finito dentro. Ma che cosa c’entra il razzismo? Lumumba l’hanno arrestato perché ha la pelle nera o perché Amanda Knox l’ha «chiamato in correità», come si dice in gergo giudiziario? Un altro, appena uscito, avrebbe detto: adesso a quella stronza che mi ha tirato in ballo gliela faccio pagare. Invece no, la colpa non è di Amanda, è del razzismo che ha contagiato pure i magistrati.
Raffaele Sollecito è stato ancora più geniale. Con una battuta fatta filtrare dalle sbarre della sua cella ha spostato indietro le lancette dell’orologio di una quarantina d’anni abbondante, ci ha fatti tornare ai tempi in cui i meridionali venivano chiamati «Africa» a Milano e «Napoli» a Torino; i tempi in cui noi polentoni favoleggiavamo su vasche da bagno riempite di terra con le pianticelle e olive conservate nel bidet.
Intendiamoci: magari è completamente innocente anche lui, Sollecito. Anzi è probabile che lo sia, viste le tante contraddizioni della bella Amanda, la quale non si ricorda neanche se quella sera con lui ha fatto l’amore oppure se ha studiato, due cose che anche il più rimbambito di noi terrebbe ben separate nei files della propria memoria. Ma il ragazzo si trova attualmente sotto inchiesta perché in casa sua è stata trovata l’arma del delitto, un coltello con Dna di Amanda sul manico e di Meredith sulla lama. Forse è per questo dettaglio che il giudice vuol chiedergli qualche chiarimento. Invece il ragazzo non ha dubbi: «Patrick è stato incastrato perché di colore, e io perché sono terrone. Per il mio arresto, oggi, non vedo altra spiegazione».
Patrick Lumumba ha giocato la carta del razzismo sapendo di trovare, nell’Italia di oggi, una facile accoglienza e pietismo un tanto al chilo. Sollecito ha tentato un’operazione più complessa, ma in fondo ha capito che in Italia si vuol far credere che i confini della diffidenza verso l’«altro» siano sempre più labili. Quello che viene dal Congo è sicuramente uno straniero; ma si può invocare la scusante della xenofobia anche se i chilometri che ci dividono dai nostri persecutori sono solo poche centinaia. Ovunque ci troviamo, c’è sempre qualcuno più indigeno di noi. A Garlasco, provincia di Pavia, s’è fatta trapelare la voce che in paese ce l’avessero con gli Stasi perché vengono da Liscate, provincia di Milano. A Erba s’è parlato di razzismo anche se la vera ragione dell’odio non era una lontananza ma una vicinanza, anzi un’adiacenza.
Insomma Lumumba e Sollecito non sono del tutto sprovveduti, ad agitare il fantasma dell’ostilità nei confronti del forestiero: sanno che non mancherà qualcuno che li prenderà sul serio.

Però è augurabile, per il loro futuro da liberi cittadini, che al processo tirino fuori dal cilindro argomenti più convincenti. Perché sarà anche vero che c’è sempre qualcuno più terrone di noi. Però è anche vero che - per usare un’espressione delle sue parti, giovane Sollecito - ccà nisciuno è fesso, guagliò.
Michele Brambilla

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