Giancarlo Sepe e una «Casetta» piena di ricordi

Laura Novelli

Più che uno spettacolo dentro lo spettacolo, La casetta di Giancarlo Sepe (ora in cartellone a La Comunità come titolo di chiusura della rassegna Eti «Scritti di scena») è un luogo dentro un luogo: una roccaforte di sapienza e storia teatrale che sorge al centro del palcoscenico quasi fosse un rifugio, una stanza (personale e non solo) di ricordi e paure passati al vaglio di una graffiante ironia, azionata per raccontare la fragilità di una professione messa a costante repentaglio dalle circostanze. Ma proprio per questo vigorosamente riaffermata: ricapitolata nella sua sostanza più intima proprio perché racchiusa in uno spazio piccolo e solitario che sembra in perfetta assonanza con «l’altro» spazio, quello vero, quello minacciato di chiusura, quello pulsante di un’intera vita trascorsa a lavorare, sperimentare, inventare. Il raccordo tra questi due ambienti non potrebbe che essere Sepe stesso: la sua voce, il suo corpo, la sua memoria, chiamati in prima linea ad una confessione spassionata che, sotto le gustose spoglie di un ometto d’altri tempi, evoca certe atmosfere da cabaret espressionista, certi proclami pro-teatro degni di Karl Valentin (autore, lo ricordiamo, del geniale Teatro dell’obbligo). Eccolo dunque il regista schivo e raffinato mettersi in gioco in prima persona, rompere il ghiaccio con un monologo allusivo e ricco di slittamenti allegorici dove la malattia dell’elegante narratore - quella leggera balbuzie di cui è difficile stabilire la causa - lascia intendere che qui si voglia parlare, in realtà, di manie ben più complesse, ben più radicali. Manie rivestite di estro e passione ma purtroppo esposte a continui rischi economici, alla miopia delle istituzioni, al disinteresse generale e generalizzato.
Di fronte a questa montagna di pericoli, Sepe non indietreggia, non tace. Semmai, scrive, dirige e interpreta uno spettacolo che pure nella forma, nello stile (la splendida partitura musicale, l’uso delle luci, i movimenti degli attori, l’impianto cinematografico dell’insieme), parla di se stesso e della sua vicenda artistica. E lo fa avvalendosi di quattro giovani attori della compagnia Watt (tre donne e un uomo) i quali, se da una parte ricostruiscono con fisica visibilità l’immaginario e la memoria del regista (ora parlano in disparte, ora si baciano calorosamente, ora entrano ed escono dalla «casetta» trasportando cartelli con su scritti i titoli degli spettacoli più celebri del direttore de «La Comunità»), dall’altra ne minano alla radice la solitudine, costringendolo ad uscire dal suo angusto rifugio per fondare un gruppo, per costruire quella comunione di vissuti e talenti diversi, cioè, che da sempre rappresenta la linfa vitale del teatro. Sotto lo sguardo arguto di Beckett (le cui gigantografie tappezzano la sala del piccolo teatro trasteverino), essi provocano terremoti e scossoni irreparabili; obbligano l’artista «eremita» ad aprire la sua casetta, a combattere per difenderla, a inventarsi sempre nuove strategie di sopravvivenza.

Lungi, però, dagli intenti di questo lavoro scivolare nell’autocompiacimento o nel vittimismo: l’autobiografia diventa anzi specchio per molti e il luogo costruito per raccontarla in scena diventa il teatro di tutti.
Repliche fino al 30 giugno. Informazioni: 06/5817413.

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