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Gianfranco mollato perfino da «Repubblica»

RomaDalla roulette di Montecarlo esce ogni giorno lo zero per Gianfranco Fini, e le sue fiches diminuiscono a vista d’occhio. L’armata Brancaleone dei suoi freschi alleati di comodo, schierati al centro e a sinistra e tutti impegnati nelle ultime settimane a turarsi con differente impegno il naso per non sentire le altrimenti insopportabili zaffate del fascismo che fu, perde pezzi man mano che lo scandalo della casa di boulevard Princesse Charlotte imprigiona Fini nel suo ruolo di politico improvvido e di uomo succube della famiglia della donna che ama.
L’ultimo a sganciarsi è stato il giornale-partito della sinistra, Repubblica, che per giorni ha praticato la tattica dello struzzo nei confronti dello scandalo che andava investendo il presidente della Camera, da poco promosso a improbabile idolo dato in pasto al popolo dei lettori in cerca di chiunque si proponesse come avversario del Cavaliere, stante l’incapacità della sinistra propriamente detta a esprimerne uno qualsivoglia. Quindi testa sotto terra e via ignorare, la parola d’ordine che girava in largo Fochetti. Poi, quando la strategia ha iniziato a rivelarsi un suicidio giornalistico, anche il foglio di Ezio Mauro ha dovuto arrendersi e dare spazio alle notizie che arrivavano dal Principato. E con le notizie i primi distinguo, gli smarcamenti, la voglia di evitare gli schizzi di fango, fino alla poco elegante manovra di abbandono della nave che affonda - e va bene che Fini ama le immersioni.
Ieri, in prima pagina, un commento non firmato, e come tale attribuibile alla direzione, dal lapidario titolo «Il dovere della chiarezza», così sentenziava: «Il presidente della Camera ha un’unica strada per sfuggire a questa guerra mortale, una strada che coincide con i suoi doveri verso la pubblica opinione. È la strada della chiarezza e della trasparenza. Dopo aver detto la sua verità sull’affare Montecarlo, deve pretendere la verità da Giancarlo Tulliani, intermediario e beneficiario della vendita. Fini chieda a Tulliani di rivelare i nomi e i cognomi degli acquirenti e le condizioni dell’affitto. Questo per rispondere al sospetto, ogni giorno più pesante, che Tulliani abbia intermediato per se stesso, dietro il paravento off-shore. Solo così si potrà accertare definitivamente che la “famiglia” venditrice non è anche la “famiglia” acquirente».
Insomma: caro Fini, ciao. È stato bello - ma neanche tanto - finché è durato. E a esprimere meglio il concetto ci pensano un articolo che apre pagina 4 incentrato sulle parole dell’ex An Antonino Caruso, che ricorda come sull’appartamento monegasco lasciato in eredità dalla nobildonna Anna Maria Colleoni ci fosse stata un’offerta di un milione ignorata dal partito; e, sotto, un quasi intenerito racconto della tensione tra Gianfranco ed Elisabetta Tulliani, nel quale le vacanze del presidente della Camera e della sua compagna ad Ansedonia sono descritte con toni quasi fantozziani: «Fini - scrive Alberto Custodero - è profondamente turbato, per stemperare la tensione ieri ha tentato di organizzare un’immersione notturna, rimandata a causa delle condizioni non ottimali del mare». Se anche Nettuno volta le spalle a Fini, si mette male.
Chi invece non aspettava altro è Antonio Di Pietro, che ieri a Sky Tg 24 è stato lapidario: «Gianfranco Fini è stato tardivo e insufficiente nel dare spiegazioni. Sul piano penale probabilmente non c’è niente ma su quello politico sì». Poi un consiglio: «Dovrebbe prendere il cognato e parlarci chiaramente. Se non fa chiarezza presto e bene, è finito pure lui». Un de profundis bello e buono, che ha una sua spiegazione elettorale se è vero che proprio l’Italia dei valori dell’ex magistrato di Mani Pulite è indicata da recenti sondaggi come uno dei laghetti in cui Futuro e Libertà potrebbe pescare il maggior numero dei voti.

Il leit motiv della legalità unisce del resto Fini e Di Pietro e quest’ultimo ha gioco facile ora a dare una bella insufficienza al concorrente proprio in questa materia. E mentre Casini si prepara al voto, il Pd, continua a difendere Fini ma in maniera sempre più timida: è duro ammettere di aver puntato ancora una volta sul cavallo sbagliato per disarcionare Berlusconi.

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