Nei tempi belli Enron era un modello: il colosso cresciuto a a suon di acquisizioni, il bovino ingrassato e redditizio, il presunto simbolo del rampantismo. LAmerica credeva davvero in Enron, così come lItalia credeva in Cirio e Parlamat. Adesso la definizione più comune è unaltra: «Un cumulo di macerie fumanti». A scegliere limmagine da accostare alla Enron di tre anni fa fu il direttore finanziario della banca daffari di Houston Sanders Morris Harris, ripreso dal New York Times per raccontare la parabola discendente di unazienda dal passato splendente e ridotta, allora, a uno spezzatino.
Dallapertura della bancarotta, nel dicembre del 2001, la società texana - braccata dai creditori e costretta a staccare assegni milionari per studi legali e società di consulenza - ha iniziato a vendere (se non svendere) tutti i propri pezzi pregiati, lasciando partire, una dopo laltra, le controllate che le avevano regalato il dominio del mercato energetico a stelle e strisce. Nel giro di due anni, Enron ha ceduto la sua unità di trading su Internet (EnronOnline) allistituto di credito elvetico Ubs; le sue partecipazioni negli impianti elettrici di Dabhol in India a General Ectric e Bechtel; la Portland General Ectric, forte di 725mila utenti; la partecipazione di maggioranza nella società idrica britannica Wessex Water, forte di 1,2 milioni di utenti e oltre 25mila miglia di condotti dal Texas alla California sino al Midwest e alla Florida. Vendite necessarie per ripagare i tanti debiti contratti, cui vanno aggiunti i tagli allorganico - passato da 32mila dipendenti a 10.300 - e la messa allasta di tutti i simboli della società: dalle magliette aziendali al logo (la celebre E verde e rossa, definita «scroccona» in uno sceneggiato televisivo) sino al quartier generale costruito nella città di Houston.
A dicembre 2003, limmobile - un palazzo ellittico da 50 piani, un tempo abitato da 7.500 dipendenti - fu finito per 55,5 milioni di dollari e messo in vendita.
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