Gigi Bellazzi: "Gianfranco, Almirante lo usava da manganello"

Nonostante le sessanta primavere e i gravi acciacchi che gli hanno minato il corpo, l’avvocato Gigi Bellazzi, veronese, ha sempre negli occhi il lampo di quegli anni. Noto per il suo pensiero estremo, Bellazzi è stato in passato anche in consiglio comunale. Nel suo studio i simboli non mentono: busto di Mussolini, svastiche e un vecchio manifesto di Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano. Slogan: «Meglio perdere che tradire».
Avvocato, dove conobbe Fini?
«Nella Capitale. Era il 1978. Praticamente io vivevo al Fuan in via Siena 8, il contenitore universitario della destra più estrema, dove Fini non poteva mettere piede perché era odiato. La famiglia Fini era venuta a Roma perché il padre, che lavorava nel settore dei carburanti, era stato trasferito. Allora due correnti componevano il Movimento sociale: i Gentiliani, fascisti, che avevano la sede in via Sommacampagna; gli Evoliani, nazisti, in via degli Scipioni 268 A. Fini faceva parte della prima e dirigeva il giornale Dissenso».
Chi era?
«Un nessuno. Non aveva carisma, viveva solitario; se in manifestazione le cose si facevano dure, spariva. Però aveva una dote da non sottovalutare: una tenacia d’acciaio per cui, qualsiasi cosa accadesse, il giorno dopo eri certo che lo avresti trovato al suo posto».
Come divenne il delfino di Giorgio Almirante?
«Nel 1976 ci fu una forte frattura nel Movimento Sociale, che portò alla nascita di Democrazia Nazionale. Almirante diede inizio a una vera caccia all’uomo contro i cosiddetti “badogliani” e vide in Fini il suo manganello».
Siamo partiti dalla frase di quel manifesto. Meglio perdere che tradire. Considera Fini un traditore?
«Non reputo Fini un traditore perché ha tradito Berlusconi, ma perché sta tradendo l’Italia. Il Movimento sociale italiano viene costituito nel dicembre 1946. Un partito di destra, nostalgico del fascismo, poteva mai nascere in quegli anni senza aver dietro un forte consenso internazionale da parte di una forte potenza? Non eravamo tanto ingenui da non averlo capito. Vede, l’America ha sempre avuto l’interesse a costruire un cuneo che dividesse l’Europa ricca di tecnologia ma povera di risorse energetiche da un mondo arabo ricco di risorse energetiche ma povero di tecnologia. Lo slogan della destra estrema è sempre stato: morte alla democrazia liberalcapitalista, che tentava di omologare il mondo e andava contro il principio di autodeterminazione dei popoli».
Sia più schietto.
«Avevamo un modo di dire. Ricorda i film di Totò? Quando non riusciva a pronunciare una parola, perché era troppo dura, diceva: Telefunken. Ecco, la democrazia per noi era: telefunken. Bandita, il nostro più grande nemico. Lo chieda a Flavia Perina, che era una “cammmerata” con tre “m” e di coraggio ne ha sempre avuto da vendere, quante volte abbiamo gridato contro il liberalcapitalismo d’oltreceano! Ecco, Fini sta tradendo l’Italia perché ora si è messo al servizio di quel liberalcapitalismo».
Scusi, ma lei è berlusconiano?
«No, ma se mi sta chiedendo chi è ora per il Paese Berlusconi, rispondo con un altro nome: Enrico Mattei. Quando si parla del presidente si tira sempre fuori il conflitto d’interessi. Invece finalmente c’è una coincidenza di interessi tra Berlusconi e la Nazione. E Fini? Sa a chi l’avrebbe dovuta dare la casa di Montecarlo: alle famiglie di tutti quei ragazzi morti sulla strada, quando lui scappava, per difendere i nostri vecchi ideali».


Nostri, in che senso?
«Gli ideali di una generazione che, destra o sinistra, non ha lottato per mettersi in tasca denaro senza lavorare, ché Fini un lavoro non l’ha mai avuto ma è sempre stato un mantenuto della politica, ma per consegnare ai figli un mondo più libero dai giochi di potere».

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