«Il Giornale, una boccata d’aria buona»

«Il Giornale, una boccata d’aria buona»

Gustavo Gamalero è stato uno dei più significativi protagonisti della vita politica genovese. Ha vissuto tutta la Prima Repubblica, la Seconda (ammesso che ci sia) e tanti anni pieni di avvenimenti. Era (ed è) un liberale antico, invidiatissimo per come porta i suoi 84 anni, lucidi i suoi ricordi di anni belli e meno belli, gioiosi e drammatici. Quel gennaio del 1975 lo ricorda benissimo.
Allora, Gamalero, il Partito liberale viveva momenti non felicissimi.
«Proprio così. E fu l’arrivo del Giornale a ridarci respiro, perché avevamo finalmente una voce vicina a noi, ma soprattutto vicino alla borghesia genovese che era stufa di un “Secolo XIX” decisamente spostato a sinistra. Genova, dal punto di vista dell’informazione, era tutta di sinistra».
Voi come partecipaste a questa avventura montanelliana?
«Ricordo che spesso io andavo a Roma (ero nel consiglio nazionale del Pli) e con Malagodi cercavamo di insistere per questa operazione. Per fortuna c’era Beppe Manzitti, presidente degli industriali, anche lui molto infastidito, insieme all’area imprenditoriale, di come si faceva informazione, che si diede molto da fare e finalmente anche con l’aiuto di altri imprenditori nacque il Giornale».
Genova aveva però vissuto periodi positivi, prima di quegli anni, almeno dal vostro punto di vista.
«Certamente, gli anni Sessanta furono straordinari per noi. I grandi nomi dell’industria, della cultura erano con noi. Da Bocciardo, dal prof. Scotto, a Viziano, al professor Blondet, a Durand De La Penne, medaglia d’oro, a Perri...».
Eravate un gruppo storico.
«Avevamo preso il posto dei vecchi Tixi, Trombetta, Perri. Il nostro gruppo vedeva Biondi, Valenziano, Cassinelli, Baffigi, Viziano e il sottoscritto. Erano anni ruggenti, la città aveva quel taglio liberal democratico, il “Secolo XIX” aveva Cavassa a dirigerlo, la borghesia genovese viveva una vita tranquilla e anche produttiva. Era una borghesia illuminata. Noi rappresentavamo il ceto medio, eravamo presenti nelle Università, anche nel mondo del tempo libero: ricordo che lo stesso Grillo faceva cabaret per i giovani nostri, a 15mila lire a sera. Ricordo Bruno Lauzi lui sempre molto vicino a noi».
Poi arrivò il ’68 e gli anni ’70 molto difficili.
«Proprio così. La città cambiò volto, anche l’informazione si orientò verso altre direzioni e noi cominciammo a soffrire. E proprio nel ’75 si instaurò la prima giunta di sinistra con Cerofolini sindaco e in Regione con Carossino presidente. Furono anni terribili, anche per i fatti tragici che accadevano, brigate rosse, gambizzazioni, uccisioni. E in quel clima ecco arriva il Giornale. Per noi una boccata d’aria buona. Perché il “Secolo XIX” di Ottone e poi di Lanza ci ignorava completamente e attaccava gli industriali, insomma un momento difficile».
Lei comunque ha sempre avuto incarichi di livello, politicamente...
«Nel 1970 quando nacque la Regione io ero consigliere liberale, con me arrivò anche Valenziano. Nell’80 fui vice presidente regionale con la presidente Teardo, e anche assessore al turismo e alla cultura. Nel 1985 fui pro-sindaco con Campart e poi presidente della Fondazione Colombo per le colombiane».
Ha vissuto tanti sindaci...
«Da Pedullà a Piombino a Campart, Merlo. Tanti anni di politica in una città che ha subito cambiamenti violenti».
I rapporti con il Giornale come erano?
«Io conoscevo molto bene Merani, Vassallo ci seguiva amorevolmente anche se non si poteva considerare un giornale di partito. Certo il nostro elettorato comprava il Giornale. Montanelli dal canto suo ci amava, ma ci fustigava anche. Il partitismo non era da lui. Ricordo tanti giornalisti che ho conosciuto e che scendevano a Genova, da Mario Cervi, a Cesare Zappulli, a Granzotto. Insomma con loro si ricreava un certo spazio ideologico nel quale ci si poteva confrontare».
Lei ha vissuto anche i grandi processi genovesi...
«Anche quelli fanno parte di un’epoca, quello di Bozano in particolare che colpì l’opinione pubblica. Ma ricordo anche le gambizzazioni di Vittorio Bruno, di Peschiera, di Cuocolo e la morte di Coco. E ancora il rapimento di Gadolla e poi di Sossi. Quante pagine drammatiche».
A 84 anni sono più i ricordi belli o quelli meno felici. Rimpianti, rimorsi?
«Non credo, da buon liberale abbiamo ho sempre seguito una certa linea, i partiti erano l’ossatura della democrazia. Il confronto era normale. La borghesia genovese ci ha sempre ricosciuto correttezza e molto amore per certi valori».
Oggi la parola «liberale» ha ancora un senso?
«Politicamente certe parole non si sa più cosa significhino. I nostri valori però sono sempre in noi».


Rifarebbe certi cammini?
«Certo, i migliori anni fino al ’75 con grande gioia. Gli altri con meno entusiasmo, anche se ogni pagina vissuta ha sempre un qualcosa di positivo. Certamente è scomparsa una città che aveva una sua identità, una sua immagina. Peccato».

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