Non sempre avere nel proprio curriculum unesperienza da terrorista islamico è un ostacolo alla carriera: per Al-Jazeera, la televisione satellitare pan-araba, può invece rappresentare un vantaggio.
Lo documenta la storia del giornalista sudanese Sami al Hajj, che stava lavorando per la Al Jazeera come operatore quando verso la fine del 2001 venne fermato dalle forze di sicurezza pachistane. Ebbe diverse traversie, la più seria delle quali fu laccusa da parte degli Stati Uniti, di falsificazione di documenti e finanziamento di danaro ai ribelli ceceni. Al Haji fu imprigionato e finì nel carcere speciale per terroristi costruito allinterno della base militare americana di Guantanamo, sullisola di Cuba.
Più di un anno fa il giornalista, che oggi ha 40 anni, fu rilasciato e fece ritorno in patria. Oggi il «New York Times» racconta la sua storia. Al Haji è tornato a lavorare per lemittente satellitare araba, dove conduce ora un programma dedicato ai diritti umani e alle libertà civili. «Vorrei parlare per sette anni, per compensare sette anni di silenzio», ha esordito durante lintervista concessa al quotidiano americano dalla sua scrivania nella sede di Al Jazeera a Doha, nel Qatar.
Il giornale di New York afferma che, dall11 settembre 2001, «nulla di più» dellidea della prigione di Guantanamo, ha danneggiato limmagine dellAmerica nel mondo arabo. Ragion per cui, il più diffuso canale news di quel mondo, Al Jazeera appunto, «è consapevole di avere in mano una potente arma» per il suo network.
Non a caso, in una recente intervista, Ahmed Sheikh, il direttore generale di Al Jazeera, ha definito Al Haji «una delle vittime delle atrocità commesse contro i diritti umani dallex amministrazione americana»: anche se non è del tutto chiaro se le accuse che lo portarono a Guantanamo siano state considerate vere o false.
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