La giornata di Cupido, scugnizzo alato

Nella ricorrenza dell’amore i greci donavano fiori o piatti. I romani celebravano i «Lupercalia»: alle ragazze niente regali ma abbondanti frustate con pelli di caprone

«Ha una brutta voce? Falla cantare!». «Ha i denti storti? Falla ridere!». «È goffa, non sa muovere neanche una mano? Falla danzare!». «Sorprendila al mattino, quando ancora non si è truccata!». «Dopo l’amore, a desiderio spento, spalanca la finestra, e in piena luce fa’ l’inventario di tutti i suoi difetti, mandali a memoria!». Una voce che stecca fuori dal coro mieloso di San Valentino (vescovo martirizzato sotto Aureliano, nel 273), tutto fruscii di ali di Cupidi, di cioccolatini spacchettati, di frasi zuccherose a contorno del regalino di rito.
È la lezione del professor Ovidio, poeta latino, specialista del ramo, che nel suo I rimedi dell’amore, fornisce spicce e ciniche istruzioni per santificare al contrario la festa degli innamorati. Il patrono del dolce sentimento resta lui, il mite Valentino (Valens tyro, «forte soldato», di Cristo, s’intende), che rappacificava fidanzatini litigiosi con il dono di una rosa o, secondo varianti leggendarie, di una coppia di colombi; che all’imbrunire porgeva un fiore ai bambini perché lo offrissero alle mamme senza attardarsi per strada; che firmò la lettera d’addio alla figlia del suo carceriere Asterius, guarita dalla cecità, con il prototipo di ogni messaggino tenero: «dal tuo Valentino...». Come spesso accade, sulla ricorrenza cristiana si addensarono rituali pagani. I Romani avevano già una loro cerimonia dell’amore carnale: erano i Lupercalia, in onore di Luperco, arcaico nume della fecondità. Travestiti da lupi, il 15 febbraio i ragazzi di Roma scorrazzavano intorno al Palatino, fustigando con pelli di caprone sacrificale le donne, che aspiravano a sicura maternità. Un culto greve, di memoria agraria, che papa Gelasio, nel 497, rimpiazzò con la festività del santo di Terni. Ma i simboli connessi conservarono (e tuttora esibiscono) la fragranza d’antico. Cominciamo dagli Amorini, i Cupidines dei romani. Sono d'incantevole invenzione greca, e si chiamavano èrotes. Gli Elleni ebbero fede, da sempre, nel potente Eros, un dio senza volto, una forza positiva che ai primordi del cosmo legò gli elementi dispersi nel caos. Un emblema buono per i filosofi, ma poco appetibile per le coppiette spensierate. I poeti ci lavorarono sopra. E nacque Amore, figlio di Afrodite (la Venere latina), impertinente scugnizzo alato che si diverte a ferire con frecce d’oro, scagliate dal suo arco incordato di porpora. Neppure sua madre riesce a gestire il monello, assicura il poeta Mosco, che si nasconde e fugge, mitragliando dardi perfino nel mondo dei morti. Platone, in una poesia, ce ne lascia un ritrattino indimenticabile: eccolo, nell’innocenza del sonno, abbandonato su un cuscino di rose, le piume raccolte dietro le spalle, mentre le api depongono miele sulle sue giovani labbra. Dal ramo dell’albero pende la sua arma, la faretra colma di dardi, a ricordarci che quel riposo infantile è una pausa, tra una strage e l’altra. Gioca con dadi d’oro insieme a Ganimede, nel giardino di Zeus: perché l’amore è un volo d’azzardo, e gli astràgali (i dadi greci) sono i destini dei mortali, oggi un sei, il tiro di Venere, domani un uno, il colpo peggiore, detto «del cane». Ben presto Eros si moltiplica, nei puttini dispettosi cari alla matita di Peynet. Ora vendemmiano (e i grappoli rappresentano i cuori umani); ora da arcieri si trasformano in incendiari, lanciando nei petti devastanti scintille. Il poeta Asclepiade geme per l’indifferenza con cui gli amorini gli fanno il cuore di cenere. Che festa sarebbe, senza regalini? La grancassa commerciale di San Valentino ne squaderna per tutti i gusti, ma il campionario antico è già vario e vasto.
In Grecia, i pittori di vasi davano le prime dritte. Il presentino d’amore era, in sé, il piatto o il recipiente, impreziosito dalla raffigurazione del gesto affettuoso: lo spasimante che porge un galletto, una quaglia, un tordo, una lepre, accreditati, presso gli antichi, di vigore erotico. Catullo regalò alla sua Lesbia un passero, e ci ricamò sopra versi futili e toccanti. Poi fiori, in ghirlande dove spiccano le rose, da sempre messaggere di Venere, incarico diviso con le mele, da regalare in cesto. Seguono i libri di poesia, in formato tascabile: i Virgilio e gli Omero «palmari», che stavano in una mano. Non mancano i capi di vestiario, gli accessori.
Il più indicato era la cintura, che per i classici includeva significati maliziosi: «sciogliere la cintura» era, infatti, il codice per indicare i preliminari amorosi. Per questo le belle, talvolta, mettevano le mani avanti e tra i ricami di fiori inserivano sulla fascia (ricordava il cinto di Venere alla cui seduzione neppure Giove resisteva) scritte fin troppo sincere. L’affascinante Ermione, lamenta un epigrammista dell’Antologia Palatina, vi aveva trapunto l’avviso: «Amami pure come vuoi, ma non soffrire troppo se qualcun altro mi fa sua!». Il pratico Ovidio consiglia di comprare frutta e noci al mercato rionale, ma di far sapere alla fidanzata che il dono arriva fresco dai propri poderi suburbani. Anche una poesiola può fare la sua figura, aggiunge l’autore dell’Ars Amatoria, ma il regalo più promettente resta sempre un bel gruzzolo di sesterzi d’oro.

Marziale raccomanda la carta da lettera, economica: le tabulae vitellianae, che non avevano il pregio della pergamena o delle pagine d’avorio, ma andavano dritte al cuore. Erano le antenate romane dei nostri SMS. Ricevendole, si sapeva che non parlavano d’affari o d’incarichi di stato. Però contenevano la notizia più gradita della giornata: l’ora dell’appuntamento.

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