È sbornia e vendetta. È il ghigno di rabbia dopo la frustrazione. È voglia di mettersi in mostra o di regolare i conti, prima di tutto fra di loro, poi forse penseranno agli altri. È la solita smania di parlare di liberazione, quando da liberare non c’era proprio nulla. Tutto questo porta a dire ad alcuni vecchi saggi della sinistra: speriamo di non rovinare di nuovo tutto per troppa enfasi, estasi, eccitazione. È così che dopo aver sconfitto Berlusconi a qualcuno meno ebbro viene da dire: quanto durerà questa sinistra? A vederli ora butta male.
L’unica cosa certa della giornata è il cappottone subito da Pdl e Lega. Il resto sono sospetti. Il primo è che la sinistra ha vinto ma con sé non porta nulla di nuovo. Anzi puzza di vecchio, di rancido, di soliti volti, senza un progetto, senza un’idea. È come se si fosse aperta una falla nel passato e tornano tutti in fila i vecchi slogan, con le parole di sempre, scorie del Novecento, con Pisapia che mette in mostra il suo Pantheon personale dove dormono Pertini, Topolino e Che Guevara. La piazza, davanti al Duomo, canta Bella Ciao e la compagnia di giro degli artisti si prepara alla passerella di rito: Paolo Rossi, Eugenio Finardi, Flavio Oreglio. Celentano c’è con l’anima e dopo settimane da santone ora si sente profeta. Umberto Eco, che ormai vive in un mondo parallelo, si bagna di nostalgia. «Abbiamo sottratto a Berlusconi il certificato di sana e robusta costituzione. Sull’orlo degli 80 anni ritrovo la Milano di un tempo grazie a voi, la Milano del bar Giamaica dei pittori e degli esperimenti artistici». Nichi Vendola è partito in fretta da Bari per metterci capello, spostando all’ombra il mite Pisapia. Saluta le bandiere arancioni e quelle di Rifondazione, si inchina ai cartelli con scritto «Berlusconi game over» e poi saluta imitando Checco Zalone: «Abbracciamo i fratelli rom e musulmani». È retorica. Rom e musulmani lo sanno. Come si fa a credere a uno che parla così?
A Montecitorio, intanto, si rivedono i fantasmi. Sono le cinque della sera e in un «Transatlantico» deserto irrompono Giordano, Cento, Mussi, Elettra Deiana, Ciccio Ferrara. Segue a ruota anche Paolo Ferrero. Sono i reduci dell’Unione, la sinistra extraparlamentare che si era rifugiata nel limbo dei senza poltrona. Finora hanno campato bene con le rendite da ex parlamentari. Risentono il profumo dei soldi. Entusiasti per la vittoria, spiegano: «Stiamo trattando col Pd per fare la manifestazione tutti insieme». Ma questi manifestano sempre? Se vincono, se perdono, se vanno in pensione. Lavorare stanca, manifestare ti riporta al tempo che fu.
Al Pantheon la sagoma di Prodi oscura tutto. È tornato e fa «pat pat» sulla capoccia a Bersani. È qui per dire al Pd che il progetto di Veltroni è fallito, che il destino della sinistra non può deviare dal suo modello: l’insalata ideologica che vince ma non può governare. Eccoli di nuovo tutti lì, da Vendola a Di Pietro, cattolici e post marxisti, tenuti insieme dall’antiberlusconismo. E se un giorno il Cav non ci sarà più? Chi vi tiene? Che vi lega? Non conta neppure il paradosso di aver eletto sindaco un garantista a Milano e un manettaro a Napoli. L’euforia annacqua tutto. Prodi così festeggia anche per De Magistris, quello che lo indagò per l’inchiesta Why not e che puntando l’indice contro Mastella fece caracollare il suo governo. Ma è festa. Battiamo le mani.
Le batte pure Fini, che con i suoi miseri voti spinge anche lui per metterci la faccia. «Senza di me non sarebbe caduto. Ho fatto quel che potevo per farlo finire. Alzerei ancora il dito per dire: che fai mi cacci?». È il suo epitaffio politico. Ma c’è chi si accontenta della sconfitta altrui.
Pisapia e De Magistris urlano: «Abbiamo liberato Milano», «abbiamo liberato Napoli». Non si sa da cosa. Dalla dittatura? da Bassolino e dalla Jervolino? A loro piace parlare di liberazione. La sputtanano, come parola, ma va bene così. Solo un dubbio: chi ci libererà dai liberatori?
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