Continua l'esplorazione del mondo dei giovani e dei loro disagi esistenziali da parte della compagnia «I demoni», guidata da Renzo Trotta e costituitasi l'anno scorso proprio portando in scena la gioventù malata de «I demoni» di Dostoevskij. Quest'anno tocca a «Il misantropo» di Molière, in scena in piazza S. Matteo per il festival di Lunaria domani e martedì alle 21.15.
Il misantropo è il giovane Alceste (Federico Giani), che si scaglia contro le ipocrisie della società in cui vive: coinvolto in una causa, rifiuta, nonostante il consiglio dell'amico Filinte, di curare i propri interessi e la perde ingiustamente. La sua schiettezza non è però esente da tratti brutali, così da stroncare senza remore il sonetto di Oronte (Jacopo Bicocche). La bella e mondana Célimène (Margherita Romeo), di cui Alceste è innamorato, lo ricambia ma, insieme, lo sfugge.
Spiega Renzo Trotta, regista dello spettacolo: «Alceste non è un vecchio disilluso, un Faust, ma un giovane animato da un furioso sdegno moralistico contro il mondo. La sua ripulsa delle falsità della società è condivisibile, ma eccessiva: ha una carica distruttiva che Célimène, che pure è attratta dalla sua diversità, percepisce e da cui si difende. E Célimène, che incarna la quintessenza di ciò che Alceste aborre, lo avvince con un erotismo che non ha uguali nel teatro di Molière, neppure nel Don Giovanni». Il cuore del dramma sta proprio in questa irresolubile attrazione di opposti, da cui scaturiscono paradossali scambi di battute: «Niente è paragonabile al mio amore estremo
vorrei che nessuno vi trovasse bella, che voi foste ridotta a una condizione miserabile
Allora io potrei avere la gioia e la gloria di vedervi avere tutto dalle mie mani, dal mio amore». «È uno strano modo di voler bene!».
Una lettura, quella di Trotta, che evita il cliché dell'incompreso fustigatore dei vizi avverso a una società inguaribilmente corrotta, per restituirci un Alceste non esente dall'eccesso dei «mostri» molièriani, quali l'avaro Arpagone e l'ipocrita Tartufo. Del resto lo stesso autore affianca al misantropo un contraltare drammatico, Filinte, in cerca di una mediazione tra integrità morale e civile convivenza. E nel finale Alceste stesso riconosce l'aberrazione di un rigore morale dimentico che «in ogni cuore c'è sempre e solo l'uomo». Proprio questo tratto malinconico, votato alla solitudine, salva il misantropo dal grottesco, conferendogli un alone di eroismo nel suo radicale rifiuto del mondo. Anche il personaggio di Célimène è rivalutato: la donna frivola e civettuola di molte messinscene lascia il posto a un personaggio femminile dalla forte personalità, deciso a non assoggettarsi al dominio maschile, all'egoistico proposito di Alceste di segregarla dal mondo.
In un'ambientazione contemporanea, con richiami al '600 in musiche e costumi, gli status symbol odierni sono contestati e respinti con un furore vitalissimo e sofferto ma sterile, che porta prepotentemente alla ribalta tutta l'attualità del capolavoro di Molière.
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