Cultura e Spettacoli

GIRO D’ITALIA C’è uno scrittore in fuga

Buzzati e Campanile come Coppi e Bartali mentre Gatto e Pratolini elogiano i gregari...

Dalle nebbie dei miei ricordi infantili riaffiora un Tour de France, quello del ’47, disgraziato per i colori italiani ma prodigo di qualche onore a due nostri oriundi, un Camillini e un Brambilla, che i transalpini avranno pronunciato Brambillà. Brambilla invece, con l’accento sulla i, è l’autore di cui sto per tessere l’elogio: Alberto Brambilla, cultore tra i più assidui di una materia, «letteratura e sport», che ha saputo illustrare con studi notevoli e ristampe di testi rari o dimenticati, basti citare De Amicis e Salgari, a vario titolo pionieri in un «genere» che alterna periodi felici ad altri più fiacchi. La passione per il calcio ha ispirato a Brambilla alcuni racconti, nonché un originale romanzo, Viola come il sangue.
Ma oggi ne La coda del drago. Il Giro d’Italia raccontato dagli scrittori, Brambilla parla di uno degli eventi che più conquistano le folle, senza distinzione di ceti. Il «drago» è appunto il serpentone del Giro, il cui passaggio è così veloce che lo spettatore non riesce ad afferrarlo nemmeno per la coda. Purtroppo il dominio ormai incontrastato della televisione, mostrandone ogni minimo particolare, ha tolto alla corsa quel tanto di inesplicato, di non-veduto e perciò di rimesso alla fantasia di ciascuno di noi, che nell’età della radio, cioè del verbo dei radiocronisti non suffragato da immagini, rendeva epica e remota ogni impresa dei campioni e conferiva un quid misterioso, spesso inspiegabile, alla scelta di tifare per l’uno o per l’altro di loro. Una complicità destinata di solito a durare tutta la vita, quella fra il tifoso e il suo idolo.
La grandezza, la ritualità esemplare del ciclismo, e del Giro, era anche nella contrapposizione, in definitiva, tra due «eroi», classicamente contrapposti: ma allo sconfitto, l’anno seguente, veniva offerta, a differenza che nell’epopea classica, facoltà di rivincita. Il ciclismo ha perso colpi da quando, nel perfezionarsi dell’intero congegno - gestione, macchine, regole... -, i distacchi in classifica si son fatti insignificanti, e più difficile è diventato identificare i due in lizza per la vittoria. Pantani, gloriosa meteora, autentici rivali non ne ha avuti. In Italia, a esser generosi, l’ultimo duello di un certo rilievo si svolse tra Moser e Saronni. Roba di una trentina d’anni fa. Perciò la ricognizione di Brambilla non varca il decennio ’50, e (salvo, per la stranezza del caso, uno sguardo al 1955, quando nel Giro, maschile e maschilista per tradizione, s’infiltra una scrittrice, Anna Maria Ortese, digiuna di sport ma nella circostanza inviata del settimanale Epoca) fa perno sul 1947-1949, cioè sui due Giri nei quali il trionfo di Fausto Coppi prepara e quindi sancisce il tramonto di Gino Bartali.
Nel 1947 l’Unità s’affida alla penna del poeta Alfonso Gatto, mentre un eccellente narratore, Vasco Pratolini, segue la corsa per Il Nuovo Corriere, quotidiano fiorentino anch’esso di area comunista ma destinato a un pubblico più circoscritto. Si avverte, in ambedue gli inviati, lo sforzo di equilibrare la cronaca, di tappa in tappa, con quel ch’era loro più cònsono, il tentativo di estrarre dagli avvenimenti la radice profonda: un’essenza popolare e dunque «buona» - attraverso un’Italia non risanata ancora dalle ferite della recentissima guerra - e il paradigmatico valore di una lotta per il primato che si restringe, sì, a due campioni (Gatto, salernitano, tifa per Coppi; Pratolini, fiorentino, per Bartali) ma in una cornice dove non si cancella il sacrificio degli umili, dei virtuosi portatori d’acqua.
Pagine suggestive, quelle di Pratolini e di Gatto, entrambi chiamati più tardi a replicare l’esperienza del ’47. Ma l’ammirazione dichiarata di Brambilla investe principalmente Dino Buzzati, così come una simpatia irresistibile lo induce a celebrare Achille Campanile, in ispecie per uno pseudoromanzo, Battista al Giro d’Italia (1932), ricavato dall’assemblaggio degli articoli vergati per la torinese Gazzetta del Popolo. Vi si scioglie il copioso estro di un umorista che usa della libertà concessagli per divagare al limite dell’assurdo, facendo insomma l’Achille Campanile a suo talento, invece di comportarsi da cronista, sia pure sui generis, al servizio di un lettore sportivo.
Ma Buzzati... Per Brambilla, di Buzzati ce n’è uno solo. Il suo capolavoro (su di un registro che vede sostenersi a vicenda il reporter e lo scrittore d’invenzione, adesso che tra giornalismo e letteratura si fa largo il manierista sommo Gianni Brera, e nella narrativa dei giovani emerge Giovanni Testori con Il dio di Roserio) sono i resoconti dal Giro del ’49. Nell’occasione ritroviamo, inviato di Milano-Sera, Campanile, e dalla compresenza di due caratteri come Campanile e Buzzati s’intuisce che qualcosa di spiritoso nascerà. Già alla vigilia, ospite della nave che trasferisce la carovana a Palermo, donde quell’anno la corsa prende ufficialmente il via, Campanile fabbrica una storiella comico-angosciosa ambientata nella cabina che Buzzati divideva con il collega de l’Unità... Ma ad avvincere Brambilla sono i capitoli del vero e proprio «romanzo» che Buzzati costruisce giorno per giorno, distribuendosi come accennavo fra i doveri professionali (è l’unico inviato del Corriere della Sera) e l’impulso a «vedere» dietro e oltre i fatti.
Così crea favole, intrecci, arcani; sogna e fa sognare personaggi: a esempio il «fantaccino» ossia l’ignoto gregario. Il lungo duello Bartali-Coppi si sublima nelle tappe di montagna, come esige il canone: un epos retorico ma non banale, e l’Omero imparato a scuola fornisce l’eterna chiave: chi potrebbe mai eludere il Fato? Coppi incarna l’ascesa, Bartali il declino. E se il Giro costeggia una città su cui la Storia ha appena smesso d’infierire, Cassino, là dove un normale giornalista deprecherebbe lo scempio, Buzzati rappresenta il vuoto di un luogo restituito al dominio della «natura» - pioggia vento sole lucertole - subentrata alla costruttiva, «paziente creatura» che è l’uomo.
E Campanile, di fronte a Cassino? Beh, annota Brambilla, qui Campanile non sembra lui, col suo «quasi carducciano» e «serioso» appello a che le recenti rovine vengano conservate a perenne memoria. Per fortuna, due poscritti ricominciano sùbito a scherzare sul Giro, ribadendo la uncorrectness dell’impagabile Achille, la cui figura di borghese in bici, rielaborata proprio su una vignetta di quel 1949, spicca a buon diritto sulla verde copertina di questo godibilissimo libro.

Alberto Brambilla, La coda del drago. Il Giro d’Italia raccontato dagli scrittori (Ediciclo, pagg.

217, euro 14).

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