Cristiano Gatti
nostro inviato a P. Furcia
E allora ditelo: da un secolo raccontiamo che il ciclismo è lo sport della tregenda e dell'epica, invece abbiamo di fronte lo sport delle pantofole e della flanellina. Il gruppo? A quanto pare, un simpatico circolo di golfisti. Tutto bene, tanta leggenda e tanta retorica, finché splende il sole e si passano la crema contro le scottature. Ma non appena scende la temperatura e si profila un tappone vero, subito a piantare grane. Piagnisteo generale, minacce di sciopero, partenza ritardata di venti minuti. Adesso dovremmo star qui a raccontare il bel gesto di Ivan Basso, che regala la seconda tappa all'ottimo Piepoli, non prima però di aver nuovamente disintegrato la concorrenza. Dovremmo, come se davvero si trattasse di una tappa comunque commovente. In realtà, è meglio stendere un velo pietoso. Perché quel che avviene in questa giornata resterà certo nella storia del Giro. Ma non come una pagina gloriosa: semplicemente, come una pagina nera.
Nessuno sta qui a dire che la giornata sia da infradito e pic-nic. Anche un orso polare potrebbe tranquillamente riconoscere condizioni disagevoli. Però attenzione: tutti abbiamo sempre raccontato e considerato i ciclisti come supereroi, come mostri di resistenza, come uomini speciali nettamente diversi da noi, così fragili e così cagionevoli. Diciamolo, invece: non è bello scoprirli così imborghesiti. Così normali. Così sensibili alle intemperie e agli scherzi del meteo.
Che storia. Come i nostri anziani in Riviera, al primo colpo di vento, si rintanano nella pensione Mary per la briscola chiamata, così gli atleti del Giro piantano subito i piedi (tra parentesi, sono gli stessi che al Tour accettano qualsiasi angheria). Non vogliono partire. Per la verità c'è qualcuno che il suo mestiere lo vuole fare fino in fondo: primo fra tutti il vero duro del gruppo, quel Gibo Simoni che magari comincerà a perdere qualche ruota, ma che ancora non teme alcun confronto sul piano del carattere e del coraggio. Il problema è che la maggioranza, come sempre, vince. E dunque avvia il braccio di ferro.
Dall'altra parte, purtroppo, non c'è il rimpianto Vincenzo Torriani: gli attuali vertici del Giro, Angelo Zomegnan e Mauro Vegni, calano subito i calzoni. Parte così l'orrenda amputazione di una delle giornate più belle della corsa rosa. Subito via il Passo delle Erbe: si fa il giro largo dalla val Pusteria. Poi, lo sfregio più tremendo: via anche la pista in terra battuta degli ultimi cinque chilometri, da sei mesi spacciata come la chicca del percorso 2006. E pazienza se sia completamente sgombra di neve, e pazienza se i cicloturisti di mezza Italia la risalgano tranquillamente con lo zainetto in spalla (una testimonianza per tutti, Giovanni Gennari, 46 anni, prosciuttaio di Langhirano: «Io e i miei amici siamo saliti tranquillamente, ci siamo divertiti, abbiamo anche dovuto aprire il giubbotto per non sudare troppo»). Niente, non si discute: c'è maltempo, la tappa più ardita e affascinante abortisce nell'anonimato del Passo Furcia.
La cosa veramente triste? A parte lo spettacolo buttato nel pattume, la cosa veramente triste è la colossale bugia diffusa via etere: parlano di tutela dell'incolumità. Incolumità? Ma ce lo vuole spiegare questa brava gente dove sono i rischi di incolumità su una salita? I ciclisti rischiano l'incolumità nella lunghissima discesa del Gavia, sotto la tormenta, senza una mantellina per ripararsi (anno 1988). Non in salita. In salita, anche se nevica e tira vento, si suda. E non si cade. Questo bisogna dirlo chiaramente, senza timore d'offendere la permalosità di nessuno. A meno che non ci si voglia tutti riciclare in un ambientino da tappeto verde: sigaro, wiskino e siamo pronti per il bridge.
Discorsi impietosi? Forse. Ma più che altro discorsi mesti, amari, malinconici. Il ciclismo, guarda caso, ricorda compiaciuto le sue giornate più estreme.
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