La solitudine non lo spaventa. Giulio Tremonti potrebbe sposare a pieno uno di quei slogan da peanuts, stile Linus, del tipo: «Amo l’umanità, è la gente che non sopporto». Non ha mai fatto nulla per rimarcare la sua distanza tra il suo sarcasmo e il berluscones medio. La sua maledizione è che non si è mai accontentato di essere un tecnico, ma per una sorta di masochismo la tentazione lo spinge a rotolarsi nel fango della politica. Era in Parlamento già nel ’94. Non con Berlusconi, ma con Segni. C’è stato un lungo periodo in cui con il Cavaliere ha trovato una certa sintonia. Non sono fatti per andare a cena insieme, ma hanno condiviso idee e progetti. Qualcosa si è rotto quando Tremonti ha cominciato a dire al premier e a tutti i suoi ministri: la cassaforte del governo è mia e la gestisco io. L’ultimo strappo, quello fondamentale, è arrivato quando in piena crisi Berlusconi ha preferito ascoltare i consigli di Draghi e della Bce senza farsi monopolizzare da Giulio. Il superministro, già con ambizioni da capo del governo, ma frenato e infangato dal caso Milanese, ha interpretato i consigli dell’ex governatore di Bankitalia come uno sgarro personale. Non gli passerà nei prossimi anni. Ieri lui e Berlusconi si sono incontrati a Palazzo Grazioli. I resoconti ufficiali diranno che è andato tutto bene, ma è chiaro che i due ormai hanno poco da dirsi. Quello che li tiene insieme è l’instancabile mediazione di Bossi, che protegge Giulio dal suo stesso carattere e cerca di farlo passare per simpatico anche a chi, nel Carroccio, lo vede come un rivale. Maroni magari non lo attacca, ma se cade non sarà il primo a soccorrerlo.
Quando martedì pomeriggio Tremonti ha preferito deambulare in Transatlantico piuttosto che votare, maggioranza battuta di un punto sul rendiconto 2011, molti tra i suoi colleghi erano pronti a metterlo all’angolo. Berlusconi ha dissimulato rabbia e fastidio. Lì si è comunque capito che Giulio è ormai un solitario, uno fuori da quasi ogni gruppo, un senza partito, con nemici che sognano prima o poi di regolare i conti, non solo economici.
Non c’è uomo del Pdl che lo consideri un collega di partito. Tremonti d’altra parte non partecipa più a qualsiasi iniziativa che odori di Popolo della libertà. Con i responsabili lui non ha nulla a che spartire. Non farebbe mai l’errore di finire in quello scaffale di seconde scelte che è il terzo polo. Potrebbe scommettere sul governo tecnico? Inutile. Napolitano è stanco delle sue bizze e lo trova troppo competitivo. Quel puntare i piedi su Grilli contro Saccomanni per la successione a Draghi ha fatto innervosire il Quirinale, che ha letto nelle manovre tremontine un capriccio da potentato medioevale. Forse anche il presidente ha trovato bizzarro il non voto dell’altro giorno. La bocciatura del consuntivo, tra l’altro, non è che non crei preoccupazioni economiche. È uno stop, momentaneo, al varo della manovra salva crisi. Tremonti rischia insomma di farsi ritagliare addosso un’immagine da piantagrane capriccioso. Il soccorso della sorella peggiora ancora di più la situazione. Angiola Tremonti ha detto su Radio2, a un Giorno da pecora: «L’assenza di mio fratello? I ministri governano. Sono i peones che non dovrebbero stare a casa, in vacanza, il martedì e dovrebbero lavorare almeno quattro o cinque giorni». Non ha tutti i torti, ma l’indice di popolarità della famiglia a Montecitorio e dintorni segna sempre di più «antipatia.
Dove sta allora il futuro di Tremonti? La sinistra lo coccolava solo come ipotetico Bruto. È un gioco che Bersani ha fatto con tutti quelli che potevano far fuori Berlusconi con uno stiletto. È quello che è successo a Fini. Solo che quando il tradimento è fallito o non c’è stato la sinistra ti abbandona in autostrada. Niente transumanza, quindi.
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