Giungla di cartelli al Palazzaccio E il tribunale diventa un labirinto

Cartelli, indicazioni, frecce, totem, dispenser di sapone, propaganda istituzionale. Benvenuti nel tribunale di Milano ultima versione, dove una parte dei pochi soldi restati in cassa al «sistema giustizia» viene speso per aiutare i frequentatori del Palazzaccio a non perdersi nei meandri marmorei di corso di Porta Vittoria. Con il rischio, però, che l’affastellamento semiotico produca, alla fine, più caos che chiarezza.
L’ultima puntata di questa verve segnaletica è andata in scena pochi giorni fa. Armata di trapano e tasselli, una squadra di operai è entrata in azione al terzo piano del palazzo, quello dove si affacciano le aule delle sezioni penali del tribunale. A lato di ogni aula sono stati affissi grandi cartelli bianco-neri-blu con la scritta «Tribunale Ordinario di Milano» e l’indicazione della sezione e dell’aula (che peraltro, fortunatamente, coincidono: «Sezione Ottava - aula 8»). Niente di male, si dirà. Peccato che alle entrate delle medesime aule siano già collocate altre insegne, accumulatesi nel corso dei secoli, che dicono esattamente la stessa cosa. C’è la massiccia insegna in rilievo che risale agli anni Trenta, «Sezione 8». Poi c’è il cartello in plastica anni Settanta, incollato sulla porta in legno «Sezione 8». Poi c’è il cartello blu e nero degli anni Novanta, quando un sacco di soldi vennero spesi per un complicato sistema di identificazione cromatica degli uffici giudiziari di Milano (il blu indica il tribunale, il grigio la Corte d’appello, eccetera): «Aula 8». E adesso sono arrivati i nuovi cartelli, identici a quelli degli anni Novanta se non per la specificazione che si tratta di aule del tribunale «ordinario» (e non, chessò, del tribunale militare o del tribunale delle acque). Ondate successive di cartelli che non sostituiscono quelli precedenti ma vi si aggiungono, con il risultato che ogni aula è segnalata da quattro o cinque insegne. Repetita iuvant.
La nuova ondata di cartelli arriva sull’onda di una politica di ammodernamento del palazzo che ha il meritorio fine di rendere meno ostico l’accesso al comune cittadino. La struttura dell’edificio, d’altronde, ha una sua razionalità ma prima di riuscire ad orientarsi tra ammezzati, atri e corridoi ci si mette un bel po’. Spiegare, per esempio, che esistono due quarti piani, su livelli diversi e non comunicanti tra loro, può risultare complesso. Così accadeva che i testimoni e gli imputati, convocati per una udienza, si perdessero nel labirinto. Anche perché spesso accadeva che arrivati finalmente davanti all’aula trovassero affisso un cartello che annunciava lo spostamento dell’udienza in un altro punto del labirinto indicato in modo oscuro (per esempio, «aula ex civile lato San Barnaba»).
A questo si è posto rimedio creando un ingresso riservato ai testimoni (ma non, chissà perché, agli imputati) con un banco informazioni apposito per orientare i malcapitati. Una ottima idea, anche perché poco oltre il banco di informazioni si apre un dedalo di corridoi che due anni fa sono stati ribattezzati con nomi di donne della mitologia greca (Afrania, Ifigenia, Aspasia, eccetera) certamente affascinanti ma poco familiari all’umanità multietnica che affolla il palazzaccio. Insomma, una mano ad orientarsi talvolta serve. I cospicui investimenti in cartellonistica sembrano destinati ad attenuare queste difficoltà: ma l’impressione è di trovarsi di fronte ad interventi sparpagliati più che ad un progetto unitario finalizzato a rendere più accessibile il palazzo di Giustizia. «Il tribunale che verrà», annuncia un gigantesco totem luminoso piazzato al centro dell’atrio principale, quello su corso di Porta Vittoria.

Non è mai stato chiarissimo cosa volesse dire, neanche quando una serie di monitor ai suoi piedi diffondevano immagini della vita degli uffici giudiziari. Adesso i monitor sono spenti, e il senso dell’ingombrante manufatto è divenuto ancora più misterioso.

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